Mafia e giornalismo: l’informazione che dà fastidio


Mafia e giornalismo: l’informazione che dà fastidio


Pietro Nardiello dopo le minacce: “Per far cambiare un paese bisogna farlo diventare Stato”



Pietro Nardiello, giornalista e scrittore di Napoli, collabora con La Repubblica ed Articolo 21. Da sempre sensibile e impegnato nella lotta contro la mafia, nel 2008 idea e dà inizio al Festival dell’impegno civile, sulla cui esperienza  scrive anche un libro “Il festival a casa del boss”. Lo scorso 13 gennaio ha subito un pesante atto intimidatorio: Il vetro rotto dell’auto con un cartello inequivocabile” Pietro Nardiello giornalista di m…”. In questa intervista con la sua testimonianza porta alla luce la difficoltà di molti giornalisti nel fare quotidianamente il proprio lavoro senza pretese di eroismo, trasmettendo uno spaccato generale della situazione sociale, politica e culturale in cui il nostro paese è immerso e dal quale riuscirà a riemergere solo con una presa di coscienza di tutta la società civile verso un percorso di impegno e responsabilità in cui ognuno è chiamato a fare la sua parte.



Dott. Nardiello nei giorni scorsi ha subito una nuova intimidazione. Crede di aver dato fastidio a qualcuno con i suoi ultimi articoli? 

Quanto accaduto è l’atto più eclatante che è avvenuto rispetto a tante piccole cose che ha subito la mia macchina negli anni trascorsi, soltanto che è avvenuta nel momento in cui meno me lo potevo aspettare  perchè gli ultimi articoli su temi delicati,  dai commenti sulla terra dei fuochi alla discarica di Chiaiano piuttosto che sui beni confiscati inutilizzati, li ho fatti parecchio tempo fa,  l’ultimo sei mesi fa. Un pochino in ritardo come atto intimidatorio. 
Quindi si può dedurre che non c’è un nesso di causalità con uno o più articoli specifici, probabilmente è per  varie cose che ho scritto negli ultimi anni e che comunque hanno dato fastidio e continuano a dare fastidio. In passato ho fatto nomi di persone e anche di politici. Probabilmente questa è una zona che non dimentica e se ti individuano come “fastidioso”, perchè fai un certo tipo di lavoro, continuano a farti brutti scherzi. Sicuramente i responsabili sono qui nel vicinato, non sono molto lontani da qui.

Quindi lega l’atto intimidatorio alla “particolarità” della zona in cui abita, quali altri tipi di minacce o atti intimidatori ha ricevuto in passato?
Le solite telefonate oppure qualche imprenditore che voleva spaccarmi la testa perchè avevo scritto riguardo alcune strutture abusive che hanno fatto qui attorno, poi queste stesse persone hanno denunciato il racket e sono entrate in associazioni antiracket, altro fatto strano. In passato, dieci anni fa, altri colleghi di La Voce della Campania hanno avuto problemi abitando nella mia stessa strada, auto bruciate e altre cose spiacevoli. Sicuramente questa è una zona un po’ particolare, silenziosa, i Polverino e i Nuvoletta ormai sono distanti da qui però possono esserci dei manutengoli ,  personaggi che non sono direttamente  camorristi oppure gente che vuole farsi notare  nel suo piccolo per emergere.


Come ha reagito quando si è accorto dell’accaduto? Le Istituzioni le sono state vicine? 
Siccome ho aspettato un giorno e mezzo prima di avvisare dell’accaduto quando sono andato al commissariato mi hanno detto che se dovesse succedere un’altra volta devo avvisarli subito così  possono mandare  immediatamente una pattuglia in supporto a fare qualche rilievo. Devo dire che questa disponibilità mi ha tranquillizzato e mi ha fatto sentire un pochino più vicino alle Istituzioni. Dopo aver sentito l’ordine dei giornalisti di Napoli e dopo che il presidente Lucarelli ha fatto la denuncia ho divulgato la notizia anche su facebook perchè siccome so per certo che c’è qualcuno della zona che mi legge volevo che  riferisse e diffondesse la notizia che ho fatto denuncia, che la Digos ha tutto l’incartamento e che io vado avanti.

Lei ha collaborato con molti giornali e da sempre è impegnato anche sul fronte della lotta alla criminalità organizzata, cosa la anima a fare il giornalista? 
Semplicemente mi piace scrivere e  raccontare i fatti, in modo equilibrato senza essere fazioso, ma probabilmente questo modo di fare non va bene a qualcuno.

A riguardo, qual è la sua opinione sull’importanza dell’informazione al giorno d’oggi in Italia e come secondo lei deve essere fatta?
L’informazione  è importantissima, rimanere in silenzio e tacere su una cosa significa favorire  qualcuno.  A tutti i livelli anche se uno scrive in una rivista sportiva e fa poco onestamente il suo lavoro significa non parlare in modo chiaro a chi ti legge. La situazione del giornalismo in Italia però è molto drammatica perchè  da un lato ci sono dei giornalisti “più vicini a certi interessi”, i quali scrivono poco la verità, ma dall’altro lato il giornalista deve anche sottostare al tipo di giornalismo che vogliono gli editori, perchè comunque è l’editore che lo paga. In tanti partono con l’idea di fare di questa professione un punto d’orgoglio, una professione modello, però i giornali chiudono improvvisamente perciò questo è un periodo molto difficile, soprattutto nelle zone di frontiera dove si collabora con qualche contratto ad articolo, vedi licenziamenti dalla sera alla mattina anche in giornali che non dovrebbero avere problemi economici.

Ci parla del libro “Strozzateci tutti” a cui a partecipato, ideato in risposta a Silvio Berlusconi che aveva dichiarato di voler strozzare quelli che scrivono libri di mafia perchè fanno fare brutta figura al paese?
Io ho partecipato in modo convinto a quell’iniziativa,  purtroppo si è arenata, era un’idea convincente anche molto venduto, ma al di là del punto di vista economico proprio come progetto culturale era un’idea vincente. La  cosa grave quella volta fu che nessun parlamentare rispose a Silvio Berlusconi,  nemmeno i suoi nemici storici, nonostante la gravità di quelle frasi. 
A tre anni di distanza bisogna  ammettere che Berlusconi anche in quel caso ha utilizzato quella frase come fatto mediatico per interessi mediatici propri, perchè  altrimenti non si spiegherebbe il fatto che dopo qualche anno Mediaset ha trasmesso quella fiction su Pupetta Maresca (moglie del boss di camorra Pasquale Simonetti, che per vendicarsi della morte del marito uccide il presunto killer, ndr.)
Secondo me, sarebbe stato bello  se noi, scrittori e giornalisti che avevamo partecipato a quel manifesto ci fossimo riuniti per analizzare quello che era successo e magari aprire un dibattito subito dopo la trasmissione della fiction.

Infatti negli ultimi tempi sono state prodotte molte fiction sull’argomento, vedi ad esempio il caso stesso di Berlusconi appunto che dopo aver fatto quelle affermazioni ha prodotto l’ennesima fiction di mafia, qual è il suo pensiero sull’importanza di parlare della mafia a livello mediatico? 
Se la fiction è fatta bene dal punto di vista documentaristico quindi storico diventa un buon strumento di conoscenza,  perchè all’età di 11 anni mi ricordo bene che quando purtroppo ammazzavano qualcuno per mafia, ne venivo a conoscenza grazie anche a certe trasmissioni e programmi che trattavano questi temi al tempo.
Inoltre può essere un modo per conoscere la storia recente di questo Paese perchè non tutti gli insegnanti sono sensibili o preparati su questo  argomento. 
Dall’altra parte si può dire che queste tematiche sono diventate anche di uso commerciale ed economico, in parte hanno perso la loro valenza educativa e informativa, si è passati da un tema per pochi eletti e pochi addetti ai lavori ad uno di divulgazione di massa e ad una semplificazione del tema.

Per certi aspetti si può dire che il tema della mafia e della criminalità organizzata trova interesse finchè rimane un racconto cinematografico, ma quando richiede una presa di posizione alle istituzioni e ai cittadini spesso c’è indifferenza e diffidenza. Secondo lei quali sono le cause di questa indifferenza o disimpegno diffuso? 
Io credo che c’è l’interesse di far  passare il problema mafia soltanto per un problema militare riferito solo ad alcune zone d’Italia, questa chiave di lettura del fenomeno mafioso è molto diffusa.  Infatti si fa molta difficoltà a far capire che la penetrazione mafiosa è presente anche al nord Italia. Sebbene questo fatto si spiega molto semplicemente: se al Sud non ci sono le direzioni delle banche, significa che queste sono tutte al nord. Quindi è un fatto oggettivo che i soldi sporchi depositati nella piccola banca locale meridionale, ma gestita dalla direzione nazionale, arrivino anche al Nord. Il fatto che a Torino e a Milano ci sono stati giudici che si interessavano della lotta fra catanesi e siciliani  nei primi anni ’70 fa capire come l’infiltrazione mafiosa al Nord è un fatto vero e acclarato. 
La politica, d’altro canto, ha da sempre questo atteggiamento un po’ riluttante perchè lei stessa si finanzia con campagne elettorali fatte anche da persone che sono vicine ad ambienti poco chiari. 
Per quanto riguarda la gente faccio distinzioni: c’è quella che si interessa e vorrebbe cambiare le cose, c’è quella che è contigua pur non essendo comunque camorrista o mafiosa e che si avvale di alcuni favori e poi c’è quella che vive di questo.

Quindi il quadro che ha delineato è parecchio drammatico, il giornalista è limitato dall’editore, la politica nasconde gli scheletri nell’armadio e la cittadinanza, in parte, è indifferente. Cosa possiamo fare per migliorare la situazione? 
 Dovremmo iniziare una rivoluzione culturale a partire dai ragazzi, però la rivoluzione non si fa a Napoli in piazza, ma si fa a Roma in parlamento quindi o ci si mette in testa che bisogna fare delle leggi un po’ più serie oppure ritorniamo sempre allo stato di fatto. 
Secondo me la gente è un po’ stanca di sentir parlare soltanto, vorrebbe un po’ di fatti concreti in più, Falcone diceva che non bisogna aspettarsi atti di eroismo dal singolo cittadino perchè poi chi tenta atti di eroismo spesso rimane isolato. 
Poi questi fatti che accadono, che ieri è accaduto a me, dopodomani accadrà a qualcun altro e sono accaduti ad  altri in modo anche molto più pesante, possono anche continuare perchè fa parte del gioco. Per far cambiare un paese bisogna farlo diventare Stato, è una parola pesante Stato, avere senso dello Stato e delle Istituzioni.  Finora siamo sempre stati un  Paese che ha funzionato male per interessi economici.

Lei ha ideato Il Festival dell’Impegno Civile, unica rassegna italiana che si svolge nei beni confiscati alla criminalità organizzata. Come è nata l’idea e qual è l’importanza di portare informazione, spettacolo e dibattito proprio all’interno della casa del boss?
Quella volta mi si chiese di mettere in relazione i ragazzi del posto con i circuiti artistici del territorio e così  feci tesoro di un’esperienza che avevo fatto a Salerno venti anni fa,  dove avevamo fatto teatro in strada nei quartieri popolari. L’iniziativa era stata apprezzata moltissimo, tanto che la gente aveva chiesto più volte  di ripeterla, quindi il mio pensiero è stato: se ha funzionato in un quartiere popolare dove il livello culturale non era altissimo e si sapeva che tipo di gente abitava lì attorno, allora portare la cultura unita al messaggio di Don Diana nei beni confiscati avrebbe funzionato sicuramente. 
Coinvolgere i ragazzi attraverso il teatro, la musica, il dibattito era il primo passo verso un impegno civile.  Infatti non è un caso che  in tante iniziative si sono viste le mamme con i passeggini. Portare quel messaggio nei beni confiscati, divenuti una sorta di piazze virtuali, significava profanarli con la parola della cultura.

Il libro “Il festival a casa del boss” finisce con un’intervista, seppure immaginaria, a Don Peppe Diana. Come mai è molto legato a questa persona? E cosa rappresenta per lei?
Non ho conosciuto personalmente don Peppe Diana  ma attraverso il racconto degli altri e quei pochi  scritti che lui stesso ci ha lasciato. Sebbene provengo da una famiglia di educazione cattolica  mi sento distante dalla chiesa di adesso, invece quello che mi ha colpito e che mi ha fatto innamorare di lui è che diceva ai suoi confratelli di andare fuori dalle sacrestie, tra la gente a predicare.  A me è sempre piaciuto stare assieme agli altri e sapere che c’era un personaggio del genere che predicava la parola cristiana del Vangelo alla gente fuori dalle sacrestie mi ha fatto sentire molto vicino al suo pensiero. Perchè amavo e amo i parroci missionari, quelli che stanno tra la gente, i più umili, senza  allori e argenti. Don Peppe Diana predicava un messaggio cristiano bello e forte e di conseguenza era anche culturale e politico.

Francesca Mondin

FONTE

antimafiaduemila.com

viv@voce

Lascia un commento