TARANTO. Ilva, una strada senza uscita
Ha generato un prevedibile quanto stonato entusiasmo la presa di posizione del premier Renzi sull’Ilva di Taranto
In un’intervista rilasciata a Repubblica nel weekend. “Stiamo valutando se intervenire sull’Ilva con un soggetto pubblico: rimetterla in sesto per 2-3 anni, difendere l’occupazione, tutelare l’ambiente e rilanciarla sul mercato”.
Tutt’altro che un’accelerata improvvisa quella del premier. Visto che l’azienda, dopo aver ottenuto la seconda tranche di 125 milioni di euro del prestito concordato lo scorso settembre con gli istituti di credito Unicredit, Intesa San Paolo e Banco Popolare, grazie al quale saranno pagati gli stipendi di novembre, il premio di produzione e le tredicesime, da gennaio rischia di andare in definitivo default.
L’Ilva ogni mese perde infatti una cifra vicina ai 25 milioni di euro, ed ha accumulato debiti nei confronti dei fornitori per 350 milioni. Altri 50 sono quelli contratti con le aziende dell’indotto e dell’appalto. E l’azienda deve, o è il caso di dire dovrebbe visto quanto accaduto sino ad oggi, far fronte ad un piano di risanamento ambientale che ammonta a non meno di due miliardi di euro.
Una vera e propria voragine che si allarga ogni giorno di più, dentro la quale rischia di sprofondare la più grande azienda italiana per lavoratori diretti e indiretti, nonché il siderurgico più grande d’Europa.
Che deve tra l’altro guardarsi le spalle dal processo per disastro ambientale portato avanti dalla Procura di Taranto, all’interno del quale sono state presentate richieste di risarcimento danni da parte di enti, associazioni e singoli cittadini, per oltre 30 miliardi di euro.
Un’accelerata dovuta quindi, anche per il fatto che l’offerta non vincolante presentata dal gruppo franco indiano ArcelorMittal la scorsa settimana (alla quale è seguita quella del gruppo lombardo Arvedi), ha confermato i paletti che da tempo hanno posto tutti i possibili acquirenti sin dall’inizio della trattativa: ovvero la non disponibilità ad accollarsi i debiti pregressi contratti dall’azienda e soprattutto gli oneri derivanti dai vari interventi previsti dal piano ambientale che non sono stati realizzati né ai tempi dell’Italsider pubblica, né durante la ventennale gestione del gruppo Riva.
Risorse, quest’ultime, che quei simpaticoni di Gnudi e del Governo hanno chiesto ed “ottenuto” dalla Procura di Milano che ha sbloccato, secondo quanto previsto dalla legge Terra dei Fuochi, parte del “tesoro” offshore dei Riva: 1,2 miliardi di euro. Sblocco del tutto virtuale, sul quale pesa sia il ricorso in Cassazione presentato dai legali di Adriano Riva (che hanno sollevato eccezione di incostituzionalità, affermando che la misura richiesta sarebbe anche contraria alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), sia l’oggettiva difficoltà, e forse sarebbe il caso di parlare di impossibilità, di ottenere dei fondi intestati ad otto trust protetti nel paradiso fiscale dell’isola britannica del Jersey e depositati nelle casse delle banche svizzere Ubs e Aletti del gruppo Banco Popolare (che, guarda caso, rientra nel terzetto delle banche che hanno concesso il prestito ponte alla stessa Ilva).
Un ginepraio, quello dell’Ilva, quasi inestricabile. Per questo, la strada individuata dal governo, prevede la strada dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, prevista dalla legge Marzano. Che però è applicabile in presenza di aziende in stato d’insolvenza: non è il caso dell’Ilva. Almeno per il momento. Visto che come riportammo mesi addietro, secondo fonti ben informate, lo scorso 26 luglio alcune ditte dell’indotto ed alcune società fornitrici del siderurgico, hanno depositato ricorsi per ingiunzione per mancato pagamento di svariate fatture.
Una strada, questa, che porterebbe l’azienda direttamente al fallimento qualora il contenzioso giudiziario non venisse risolto entro i tempi previsti dalla legge (e che stanno per scadere).
A questo punto, l’idea da tempo in cantiere e che su queste colonne abbiamo riportato nel corso di questi ultimi due anni, sarebbe quella di seguire la strada scelta per salvare Alitalia. Ovvero rendere l’attuale Ilva spa una bad company nella quale far confinare le cause ambientali e giudiziarie.
E l’eventuale risarcimento danni in tema di bonifiche e nei confronti di enti e terzi coinvolti. Detto in parole povere: quei soldi Taranto e i suoi cittadini non li vedranno mai. E questo, per quanto ci compete, accadrà anche qualora questo progetto non dovesse realizzarsi. Nella new company dovrebbero confluire invece le aziende del gruppo (oltre a Taranto, Genova e Novi Ligure), i 16.200 dipendenti diretti e i debiti riguardanti la sola attività produttiva.
Nella new.co, secondo l’idea del governo, dovrebbe entrare anche la Cassa Depositi e Prestiti (custode dei risparmi postali di di 24 milioni italiani e di cui ipotizzammo il ricorso già nell’ottobre del 2012) attraverso il Fondo Strategico, holding di partecipazioni controllata all’80% dalla stessa Cdp ed al 20% dalla Banca d’Italia. Che acquisisce quote di minoranza di imprese di rilevante interesse nazionale in situazione di equilibrio economico, finanziario e patrimoniale e che abbiano adeguate prospettive di redditività e di sviluppo. In questo caso, è bene sottolinearlo, visto che la Cdp non rientra nella gestione della Pubblica amministrazione e dunque non è computata nel bilancio dello Stato, i suoi investimenti non sarebbero classificabili, nel caso di una new company, come aiuti di Stato. Eventualità che aggirerebbe anche l’intervento dell’Unione europea.
In tutto ciò però, in pochi paiono fare i conti con i due fattori più importanti. Il primo squisitamente tecnico: l’Ilva è ancora di proprietà del gruppo Riva che detiene l’87% delle azioni. E non è dato sapere come il governo intenda liberarsi del gruppo lombardo. Chi pensa che i Riva rinunceranno a tutto senza colpo ferire, fa finta di non sapere con chi ha a che fare.
Il secondo, squisitamente umano e che come giornale ci riguarda da sempre: la vita e la salute dei tarantini. Che rischiano di non avere né giustizia, né risarcimenti.
Oltre al concreto rischio di continuare ad ammalarsi e a morire per soddisfare gli “interessi” di Stato. Visto che in molti dimenticano che la relazione sulla Valutazione del Danno Sanitario (prevista dalla legge regionale 21/2012 ) presentata da ARPA Puglia il 29 maggio del 2013 durante l’audizione in V Commissione così recitava: “I miglioramenti delle prestazioni ambientali, che erano conseguiti con la completa attuazione della nuova AIA (prevista per il 2016), comportano un dimezzamento del rischio cancerogeno nella popolazione residente intorno all’area industriale”.
Secondo l’analisi di ARPA Puglia, dopo l’applicazione dell’AIA, nel 2016 l’ILVA emetterà 22.1 g/anno di diossine, un quantitativo pari a circa la metà dell’intera produzione nazionale di questi inquinanti.
Secondo le stime dell’Agenzia Regionale, in questi anni momento rischia di avere un tumore, considerando la sola inalazione degli inquinanti, una popolazione di 22.500 residenti. Dopo l’AIA correranno questo rischio 12.000 residenti.
Che continueranno ad essere sottoposti a rischio elevato di tumore maligno a causa dell’inquinamento industriale prodotto dall’Ilva.
Il termine “almeno” era ed è giustificato dalla considerazione che questa previsione è solo parziale e il dato sul rischio è fortemente sottostimato. L’analisi, infatti, prende in considerazione i rischi tumorali legati alla sola inalazione di sostanze inquinanti, escludendo completamente le altre vie di assunzione delle sostanze tossiche emesse dall’Ilva per ingestione. Il rapporto ARPA, inoltre, calcola i rischi che quelle concentrazioni di inquinanti causano in soggetti adulti di peso medio. Non considerando che a parità di concentrazioni il rischio è decine di volte più alto per i feti e per i bambini.
Ma questa è una battaglia che questa città, forse, ha già perso. E non certo oggi.
Gianmario Leone
“Taranto oggi”, del 2 dicembre 2014