Marco Travaglio: “Dimenticare Palermo”
Il rischio, è una normalizzazione che lascerà ancor più soli i pm condannati dalla mafia e isolati dallo Stato
Mentre il Csm s’appresta a nominare il nuovo capo della Procura di Palermo, acefala dal 1° agosto dopo il pensionamento di Francesco Messineo, si dicono, scrivono e bisbigliano cose da vergognarsi. Invece passano per ordinaria amministrazione.
Proviamo a immaginare che sarebbe accaduto nel 1999, quando il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli andò in pensione, se qualcuno avesse teorizzato che si doveva sostituirlo con un nemico delle indagini di Mani Pulite. Insomma, che al suo posto non doveva andare un magistrato competente ed esperto per assicurare la massima continuità con il buon lavoro svolto fino ad allora. Ma piuttosto un Carnevale, un Vitalone, un Filippo Mancuso, una toga dichiaratamente o notoriamente ostile a quel tipo di inchieste. Per fortuna 15 anni fa il Csm non ebbe dubbi nel nominare Gerardo D’Ambrosio, cioè il più stretto collaboratore di Borrelli, coordinatore del pool Mani Pulite, all’insegna della più assoluta continuità.
Nello stesso anno, Gian Carlo Caselli lasciò la guida della Procura di Palermo e il Csm scelse Piero Grasso, sempre in nome della continuità, che lui medesimo si affrettò ad assicurare: “Da Caselli ho ereditato una squadra straordinaria, e non solo sul fronte dell’antimafia” (poi purtroppo – ma questo nessuno poteva prevederlo – si attivò per smantellarla, non solo estromettendo dalla Dda Ingroia e gli altri pm “scaduti” dopo 8 anni di indagini di mafia, ma estendendo quella regola demenziale anche agli aggiunti per togliere di mezzo pure Lo Forte e Scarpinato). Altri tempi, altri Csm.
Oggi, per diventare procuratore di Palermo, bisogna garantire la massima discontinuità con il recente passato, in particolare con le indagini (ormai a processo) sulla trattativa Stato-mafia e sui suoi frutti bacati come la mancata cattura di Provenzano nel ’95. E con i magistrati che le conducono, dal pm Di Matteo al pg Scarpinato: gli stessi non a caso minacciati e condannati a morte dai boss di Cosa Nostra e dagli apparati più loschi dello Stato.
A luglio la commissione Incarichi direttivi del vecchio Csm s’era espressa fra i tre candidati: 3 voti a Guido Lo Forte, procuratore di Messina, già al fianco di Caselli negli anni d’oro della Procura (record di boss latitanti arrestati e condannati, di beni sequestrati e di colletti bianchi collusi processati); e 1 a testa a Sergio Lari (procuratore di Caltanissetta) e a Franco Lo Voi (ex pm a Palermo, rappresentante uscente del governo B. a Eurojust).
Quando il Plenum si accingeva al voto finale, intervenne a gamba tesa il Quirinale che, non contento delle interferenze nel caso Trattativa, bloccò tutto con una lettera del segretario Marra che inventava una regola mai vista: l’ordine cronologico, per riempire prima 200 sedi giudiziarie vacanti e solo dopo quella di Palermo. Ora quasi tutte quelle sedi restano vacanti, ma il Colle non s’impiccia più e il Csm può votare su Palermo: tanto il messaggio è giunto a destinazione e si spera che, complici i soliti giochini correntizi fra laici e togati, si sia capita l’antifona: una nomina tutta politica (ergo incostituzionale) che trasformi l’“autogoverno” nell’ennesima protesi del potere e lasci ancor più soli i pm condannati dalla mafia e isolati dallo Stato.
Poco importa se regole e curricula indicano Lo Forte e Lari come i più titolati: entrambi nati nel 1948 e procuratori capi con lunghe militanze in Dda (anche se sarebbe poco elegante che Lari, competente a Caltanissetta per le indagini sui pm di Palermo, vada direttamente a dirigerli). Lo Voi invece è un buon magistrato, ma ha 9 anni in meno, non ha mai diretto un ufficio giudiziario né come capo né come aggiunto, non si occupa di mafia da 17 anni, ha beneficiato della nomina politica a Eurojust dal governo più indecente della storia, è ancora “fuori ruolo” e andrebbe a guidare dei colleghi che non dimenticano due suoi gran rifiuti: nel’92 non firmò l’appello contro il procuratore Giammanco, acerrimo nemico di Borsellino; e nel 2001 preferì non rappresentare l’accusa al processo d’appello Andreotti. L’uomo giusto al posto giusto per chi invoca discontinuità non osando chiamarla col suo vero nome: normalizzazione.
Marco Travaglio, da il Fatto quotidiano, 3 dicembre 2014