Red in Italy – l’artigianato non salverà il mondo …
Almeno finché noi non lo vorremo
Un po’ ovunque vengono allestiti mercatini dell’artigianato, che sembrano essere una nuova strada da percorrere per tutti quelli che vogliono costruirsi una professione che rifletta i loro principi: battersi per un’economia lenta, recuperare le tradizioni, unire la tecnica alla frivolezza del mondo odierno per dare al grande pubblico prodotti eticamente sostenibili.
Peccato che spesso tale proposito rimanga una chimera non perché il progetto sia troppo bello per essere vero, ma perché la premessa è infarcita di bugie.
A che mi riferisco? Diciamo che se una persona si mette a produrre oggetti di uso comune, spesso superflui, con il miraggio di combattere così la società consumistica ha sbagliato strada. Come il capellone, hippy o metallaro che sia stato, che facendosi crescere i capelli credeva di fare lo stesso. In realtà sono tutti dentro lo stesso calderone insieme alle grandi corporation e ai consumatori compulsivi, non loro malgrado ma proprio in virtù delle loro scelte.
Questi ragazzi – sovente i nuovi artigiani sono tali − si sono perfettamente adattati alla società dei consumi, creando oggetti inutili a prezzo contenuto.
L’ artigiano è controcorrente rispetto la società dei consumi non perché recupera dischi di vinile per farne svuota – tasche, ma perché progetta cose che devono durare e che costano molto a causa della qualità delle materie prime, della tecnica e dell’elemento artistico che si vanno a fondere in un oggetto che deve sopravvive al trascorrere del tempo, periodo in cui grazie all’altro modello di produzione arriviamo a consumare tre, cinque o dieci esemplari dello stesso prodotto.
L’artigianato è difficile; l’artigiano, a seconda del lavoro che fa, ha assimilato cognizioni d’ingegneria, chimica e fisica senza essere laureato. Deve avere quelle conoscenze, le apprende sul bancone di lavoro invece che dietro il banco di un’università e solo perché alla fine non riceve una benedizione da un tizio in giacca e cravatta la sua formazione è da noi considerata meno prestigiosa.
Eppure quelle che andiamo a vedere nei musei sono opere d’artigiani, non di super-eroi. Anche in questo caso scatta in noi il bisogno di vedere benedetta la loro produzione per riconoscerne il valore: se l’ha esposto gli Uffizi l’oggetto vale molto, se me lo fa pagare caro il falegname sotto casa mi sento fregato. Meglio andare all’Ikea, così la camera da letto costerà la metà e io potrò cambiarla più volte prima della pensione.
Molti dei nuovi artigiani sanno quello che fanno, hanno altissime competenze, affrontano una legislatura che scarica su di loro e pochi altri sfortunati, privi dei giusti rappresentati, l’onere di tenere in piedi la spesa pubblica. Sono nei settori più disparati e producono quelle che tutti amiamo chiamare eccellenze.
Usano la flessibilità delle tecnologie moderne per connettersi al mondo, cercando da soli nuovi mercati e diffondendo il marchio del Made in Italy. Dalle istituzioni pubbliche ricevono spesso solo una pacca sulle spalle quando finalmente riescono a emergere e non hanno supporto dallo Stato, semmai sono loro a donare al Paese che li ospita una faccia migliore, più sana, lungimirante, in altre parole saggia.
Quindi non voglio generalizzare, né demonizzare chi mette a frutto come meglio può gli anni trascorsi all’istituto d’arte. Credo, però, che tutti noi dobbiamo guardare la questione dalla giusta prospettiva: acquistare merce superflua in un mercatino non è meglio che farlo in un centro commerciale. Certo, i soldi andranno a un piccolo produttore invece che a un grande marchio dall’aspetto florido. Questo ha un senso.
Ma girando tra questi mercatini provo la stessa repulsione di quando vedo sfilare vetrine su vetrine di negozi di vestiti cuciti male, di scarpe di plastica, di telefoni cellulari nati vecchi e già da sostituire. Sono tutti prodotti che non ci servono, se non per tenere in piedi un sistema che si basa su bisogni indotti e che ha come unico scopo produrre dieci cose che non servono a nessuno e venderle a chi è più volubile, annoiato, insicuro tra noi. Se l’artigianato ha uno sfondo etico è quello di andare nella direzione opposta, come detto prima.
Tale percorso non è segnalato solo dalla longevità del prodotto, ma dal fatto che esso sia pensato per le vere esigenze di chi lo acquista, prodotto nel numero che è necessario; si tratta di un sistema di lavoro che invece di rendere il lavoratore inutile perché poco esperto e legato a una sola fase della produzione lo rende sempre più padrone del mestiere, tanto da farlo assimilare all’artista − da cui però si distingue perché l’artigiano è legato alla produzione di un oggetto che deve essere funzionale e in linea con le esigenze del cliente, non può limitarsi a creare ciò che per lui è più sensato.
A questo punto bisognerebbe iniziare a chiedersi perché dalle cave di marmo di Carrara oggi si estragga polvere per prodotti d’uso comune, o interrogarsi sul perché molte persone considerino riciclaggio di prodotti di scarto utilizzare i pallet per costruire dei mobili, quando chiunque abbia lavorato in una fabbrica o un supermercato sa che non c’è bancale sano che si possa dare in regalo a chicchessia, quindi per costruire quei mobili sono stati realizzati pallet nuovi di zecca. Ma questo è un discorso ulteriore, per cui servono più informazioni che io adesso non ho modo di cercare.
Torniamo sulla questione dell’artigianato e il suo valore: è uno dei tanti miti nati con l’esplosione di entusiasmo per le cose buone che caratterizzano la cultura italiana. Un’ondata che torna ciclica da dopo lo sviluppo industriale, basta che io pensi ad alcuni amici di gioventù di mio padre, che facevano esattamente le cose che fanno oggi tanti ragazzi in cerca di un’alternativa a un sistema di vita standardizzato: girare il mondo, andare a vivere in campagna con altri simili e coltivare il cibo che si mangia, cercare di guadagnarsi da vivere con piccoli oggetti fatti a mano.
Erano gli anni ‘70, oggi sono gli anni ’10 e nulla è cambiato. Se vogliamo veramente progredire come società, senza limitarci a essere degli esseri fermi nel tempo con strumenti tecnologicamente avanzati in mano, dobbiamo iniziare a rivedere l’intero sistema. E guardare le cose per come sono mi sembra un ottimo primo passo.
Il mercatino dell’artigianato è uguale al centro commerciale, i giovani dinamici di oggi sono uguali agli hippies delusi di ieri, il Made in Italy è per molti solo uno slogan che si fa bello con il sudore di pochi ma che in realtà non ha mai il coraggio di diventare una vera alternativa per il nostro futuro. Partendo da tali e altre consapevolezze, secondo il mio punto di vista, potremmo iniziare a porci le giuste domande per cambiare davvero.
Dafne Perticarini