Red in Italy. Ognuno ha un progetto per il turismo
Ripensavo alla mia esperienza passata, quel folle viaggio fatto nel Made in Italy passando principalmente per le porte del turismo e della comunicazione
Ripercorrendo i fatti con onestà, non trovo molti dei personaggi che ho incrociato in quei quattro anni consapevoli di dove volessero andare a parare. Io non ero da meno in quanto a confusione, ma a differenza di me quelle persone erano già inserite nel settore, magari da anni.
Erano laureati, sopra i 30 o i 40 anni, con una formazione consona al lavoro che stavano svolgendo. Io ero caduta dal cielo: a parte due corsi di formazione e libri studiati da sola, non avevo un retroterra adatto per agire.
Eppure tra noi c’era poca differenza e pensandoci mi sono resa conto che nessuno di loro sapeva come guadagnare dal progetto che stavano mettendo in piedi. Escludo da tali considerazioni solo le persone con cui ho realmente lavorato con profitto, che guarda caso sono le uniche che hanno messo subito in chiaro da dove sarebbero usciti i soldi e come noi saremo stati retribuiti.
Molte di queste persone le ho conosciute online, soprattutto tramite Linkedin, il social network dedicato ai professionisti, oppure in incontri e grazie al passaparola. Andare a un convegno o all’inaugurazione di un museo di montagna, per quanto vi sembri inutile, è essenziale per poter lavorare quando si è freelancer: mentre per altri quello sarà solo una perdita di tempo, per voi sarà l’occasione per incontrare potenziali collaboratori, fornitori, appigli che in vario modo vi aiuteranno a proseguire nella vostra strada, magari risultando utili solo a distanza di mesi.
Appurato questo, il problema è la scrematura che si deve fare di tali contatti: se hai un’attività con una sua ossatura già consolidata, in altre parole guadagni e vuoi solo allargare il tuo giro, tali incontri saranno sicuramente utili. Se, invece, stai cercando uno spazio in cui inserirti e ti affidi a chi hai davanti per intraprendere un progetto perché l’altro sembra già familiare con il settore, la situazione si fa pericolosa.
All’inizio ho creduto che il problema fossi io: ero appena entrata nei 30 anni dimostrandone – allora – qualcuno di meno; questo voleva dire che per il comune sentire io ero una ragazza in cerca del primo impiego, con una famiglia alle spalle che le pagava vitto e alloggio e che si poteva accontentare di fare qualche esperienza interessante, senza stare troppo a badare a quanto ne avrebbe guadagnato al netto delle tasse. In realtà ero una donna che lavorava da quando aveva 18 anni, con un mutuo acceso e nessun aiuto esterno, se non dal compagno coetaneo che faceva l’operaio. Io dovevo lavorare per guadagnare, non per fare esperienza. Questa percezione falsata, molto diffusa in Italia, è stata una penalità che ho pagato duramente.
Tolto questo handicap, però, ho capito che non era una questione di essere impreparati o giovani: c’era un problema proprio nel settore.
Capii questo durante le lunghe chiacchierate che feci – e ancora faccio – con il direttore della pinacoteca di Recanati, che con la sua associazione culturale all’epoca gestiva anche il museo di Loreto, l’ufficio IAT di Recanati e il museo di Serra de’ Conti.
Quattro divisioni di lavoro in due province voleva dire conoscere bene le dinamiche del settore, avendo rapporti costanti con esercizi privati, istituzioni pubbliche e religiose di Comuni, Province e Regione, a cui si univano una serie di figure indipendenti di vario genere che andavano dal giornalista all’imprenditore.
La sua era una posizione più solida della mia, eppure la situazione non migliorava: il direttore non faceva altro che raccontarmi di tizi che gli chiedevano un appuntamento e passavano ore a parlargli dei loro meravigliosi progetti per il turismo e la promozione del territorio, finendo poi per rimanere muti davanti alla fatidica domanda: «Sì, bello, ma i soldi chi ce li mette?».
Anche in sedi istituzionali tale lacuna emergeva costantemente perché chi andava a ricoprire le varie cariche era non solo digiuno del settore cultura o turismo, a seconda, ma sembrava poco avvezzo alle problematiche di un lavoratore autonomo: trovare un budget, fare un progetto consono al budget, attuarlo sapendo che i risultati arriveranno dopo molto tempo, misurare costantemente i risultati per evitare sprechi e perdite.
Nonostante la crisi i politici italiani, seduti sulla poltrona dell’assessorato alla cultura con grande orgoglio, non riuscivano a ragionare secondo tali parametri, limitandosi ad avanzare in base a due direttive: smantellare quello che era stato realizzato dagli avversari e iniziare nuovi progetti per racimolare consensi e fondi.
Per questo il mio caro direttore, alle riunioni dove erano presentati nuovi mirabolanti progetti, quando era interpellato non poteva fare altro che chiedere: «Sì, bello, ma i soldi chi ce li mette?». Anche in questo caso scendeva un imbarazzato silenzio, visto che se la mente dei politici non era cambiata, con la crisi economica i budget sì.
Così finiva che lui − e altri come lui che si sono fatti le ossa in un settore e conoscono il loro territorio – poteva solo immaginare quelle migliorie che con costi irrisori e scelte chiare avrebbero creato lavoro, mentre chi gestiva le risorse continuava a scegliere strade sempre nuove, che presto si stancava di percorrere.
Sembra il finale di una favola e in caso avremmo bisogno di una morale per chiudere il racconto.
Ecco, quindi, la morale della favola secondo il mio punto di vista: finché un settore non è preso sul serio non creerà mai economia, ma solo siparietti curiosi per professionisti annoiati e perdite di tempo per lavoratori frustrati. Questo non vale solo per il turismo, ma anche per l’editoria, la cultura, lo spettacolo e tutte quelle industrie che escono dal manifatturiero e che per questo in Italia troppo spesso sono viste come passatempi capaci di dare qualche guadagno e non come potenziali fonti di lavoro remunerato per tante persone.
«C’è tanta confusione in giro» era il mantra del mio caro direttore, che condivido pienamente.
Dafne Perticarini