Divorzi e separazioni esenti dall’imposta di registro

Divorzi e separazioni esenti dall’imposta di registro

La sentenza ed il commento dell’avvocato Maurizio Villani

Cambia tutto a seguito di un’importante decisione della sezione tributaria della Corte di Cassazione che ha stabilito il diritto all’esenzione dall’imposta di registro di tutti gli atti relativi ai procedimenti di separazione e divorzio. Di seguito, quindi, Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, riporta il commento del tributarista Maurizio Villani che dettaglia sulle novità per i contribuenti a seguito dell’interpretazione data dalla Suprema Corte in Materia.

La Corte di Cassazione – Sez. Tributaria – con la recente sentenza n. 3110, depositata il 17 febbraio 2016, ha stabilito che sono esenti dall’imposta di registro tutti gli atti relativi ai procedimenti di separazione e di divorzio.

La suddetta sentenza ha completamente cambiato l’indirizzo giurisprudenziale che sino ad oggi si era avuto, soprattutto con la sentenza n. 15231 del 03 dicembre 2001.

La citata Cass. n. 15231/2001 ha, come è noto, recepito, quanto alle conseguenze che se ne assumono derivanti in ambito tributario, la distinzione, che risale ad autorevole, per quanto ormai remoto indirizzo dottrinale, tra contenuto necessario ed eventuale degli accordi di separazione, nel primo dovendo ricomprendersi il consenso reciproco a vivere separati, l’affidamento dei figli, l’assegnazione della casa familiare in funzione del preminente interesse della prole e la previsione di assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi in favore dell’altro, ove ne ricorrano i presupposti.

Nel secondo vanno invece ricompresi i patti che trovino solo occasione nella separazione, costituiti da accordi patrimoniali del tutto autonomi che i coniugi concludono in relazione all’instaurazione di un regime di vita separata.

Detta distinzione, che si trova ribadita anche nella più recente giurisprudenza della I sezione civile della Corte (cfr., tra le altre, Cass. 19 agosto 2015, n. 16909; Cass. 22 novembre 2007, n. 24321), è sostanzialmente finalizzata a distinguere tra i patti, riflettenti il contenuto necessario della separazione, che sono soggetti alla procedura di modifica o revoca, ex art. 156, ultimo comma, c.c. e 710 c.p.c., e quelli, viceversa, che abbiano trovato solo occasione nella separazione, la cui efficacia tra le parti trova il proprio riferimento normativo nell’art. 1372 c.c.

La giurisprudenza della sezione tributaria della Corte, non solo nella succitata pronuncia, ma anche in altre successive decisioni volte a riconoscere l’applicabilità dell’esenzione di cui all’art. 19 della L. n. 74/1987 “a tutti gli atti e convenzioni che i coniugi pongono in essere nell’intento di regolare sotto il controllo del giudice i loro rapporti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio o alla separazione personale, ivi compresi gli accordi che contengono il riconoscimento o il trasferimento della proprietà esclusiva di beni mobili ed immobili all’uno o all’altro coniuge”, (cfr., tra le altre, Cass. 22 maggio 2002, n. 7493; Cass. 28 ottobre 2003, n. 16171) o anche in favore dei figli (più di recente cfr. Cass. 17 gennaio 2014, n. 860) ha pur sempre avuto modo di chiarire che “l’esenzione non opera quando si tratti di atti ed accordi che non siano finalizzati allo scioglimento della comunione tra coniugi conseguente alla separazione, ma siano soltanto occasionalmente generati dalla separazione” (così, testualmente, la citata Cass. n. 7493/2002).

In particolare, la menzionata Cass. n. 15231/2001, che si riferiva al recupero a tassazione di atto dispositivo del trasferimento da un coniuge all’altro di quota nella misura del 20% della nuda proprietà di bene acquistato in precedenza dai coniugi in regime di separazione, nell’escludere nella fattispecie l’applicabilità dell’esenzione invocata dal contribuente ex art. 19 della L. n. 74/1987, osservava che in parte qua l’accordo era solo occasionalmente generato dalla separazione tra i coniugi, senza integrarne il naturale contenuto patrimoniale.

I coniugi, infatti, così motivava la citata sentenza, avrebbero potuto legittimamente mantenere il regime di comunione ordinario, pur se separati, in tal senso deponendo “l’esame del testo dell’art. 8 della tariffa allegata al D.P.R. 131/86, che parla di attribuzione di beni già facenti parte di comunione tra i coniugi, con un richiamo evidentemente solo alla comunione caratterizzata dal rapporto coniugale tra le parti, di cui agli artt. 159 e ss. c.c.”.

Le tesi contrarie non sembrano idonee a giustificare l’esclusione dell’applicazione dell’esenzione prevista dall’art. 19 della L. n. 74/1987, nel testo conseguente alla declaratoria d’illegittimità costituzionale operata da Corte Cost. 10 maggio 1999, n. 154, “nella parte in cui non estende l’esenzione in esso prevista a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi”.

Si tratta di sentenza additiva pura che, ponendosi nel solco della precedente Corte Cost. 15 aprile 1992, n. 176, espressamente richiamata, che aveva già dichiarato l’illegittimità della norma con riferimento alla mancata previsione dell’estensione dell’esenzione al solo provvedimento d’iscrizione d’ipoteca a garanzia delle obbligazioni assunte dal coniuge separato, osservava che il profilo tributario non potesse ragionevolmente riflettere un momento di diversificazione tra il giudizio di divorzio e la procedura di separazione, “atteso che l’esigenza di agevolare l’accesso alla tutela giurisdizionale, che motiva e giustifica il beneficio fiscale con riguardo agli atti del giudizio divorzile, è con più accentuata evidenza presente nel giudizio di separazione”.

La scelta operata dalla citata Cass. n. 15231/2001 di non ritenere sovrapponibili, sul piano dell’interpretazione letterale, la dizione di “atti stipulati in occasione della separazione e del divorzio” a quella di “atti relativi al procedimento di separazione o divorzio”, conseguente alla portata additiva della sentenza della Corte costituzionale n. 154/1999 al testo dell’art. 19 della L. n. 74/1987, che porrebbe come limite all’accesso del trattamento di favore il nesso causale necessario dell’atto col procedimento, poggia peraltro su due argomenti che non possono ritenersi decisivi.

Il primo si pone, come sì è visto, in relazione all’art. 8 (lett. f) della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. n. 131/1986, norma da intendersi non più applicabile proprio per effetto della citata Corte Cost. n. 154/1999 (si ricordi anche la successiva declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 8, lett. b, della medesima Tariffa., parte I, ad opera della pronuncia della Corte Costituzionale n. 202 depositata l’11 giugno 2003, nella parte in cui non esenta dall’imposta ivi prevista i provvedimenti emessi in applicazione dell’art. 148 c.c. nell’ambito dei rapporti tra genitori e figli).

Il secondo è riferito alla possibile finalità elusiva di accordi estranei al contenuto essenziale della separazione, che trovino occasione d’inserimento nel relativo procedimento unicamente per il conseguimento di un indebito risparmio fiscale.

Con riferimento a tale ultimo profilo, in generale, deve osservarsi che se anche l’interpretazione di una disposizione di legge consenta scelte di strumenti attuativi di volontà delle parti potenzialmente tali da realizzare intenti elusivi, ciò non sembra motivo sufficiente perché essa venga necessariamente compiuta, essendo il fenomeno dell’elusione, la sua prevenzione e la sua repressione oggetto di specifica regolamentazione normativa, che oggi trova il suo fondamentale riferimento nell’art. 10 bis della L. n. 212/2000, quale introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.

Ciò che appare tuttavia di maggior rilievo, nel senso di addivenire al superamento del precedente indirizzo, è il mutato contesto normativo di riferimento.

È noto come un ormai quasi ventennale orientamento dottrinale abbia sottoposto a serrata critica la distintone tra accordi di separazione propriamente detti ed accordi stipulati “in occasione della separazione”, affermando che anche gli accordi che prevedano, nel contesto di una separazione tra coniugi, atti comportanti trasferimenti patrimoniali dall’uno all’altro coniuge o in favore dei figli, debbano essere ricondotti nell’ambito delle “condizioni della separazione” di cui all’art. 711, comma 4, c.p.c., in considerazione del carattere di “negoziazione globale” che la coppia in crisi attribuisce al momento della “liquidazione” del rapporto coniugale, attribuendo quindi a detti accordi la qualificazione di contratti tipici, denominati “contratti della crisi coniugale”, la cui causa è proprio quella di definire in modo non contenzioso e tendenzialmente definitivo la crisi.

La tesi innanzi ricordata trae certamente nuova linfa in un contesto normativo che, quantunque in modo non sempre consapevole e soprattutto coerente, ha certamente attribuito all’elemento del consenso tra i coniugi il ruolo centrale nella definizione della crisi coniugale.

Non è questa la sede per un’approfondita disamina delle tappe attraverso le quali è stato scandito detto percorso, che culmina certamente nelle disposizioni degli artt. 6 e 12. del D. L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, nella L. 10 novembre 2014, n. 162, che hanno, rispettivamente, esteso il procedimento di negoziazione assistitada avvocati alla separazione consensuale, al divorzio ed alla modifica delle condizioni di separazione e di divorzio (art. 6) e previsto che “i coniugi possono concludere, innanzi al Sindaco, quale Ufficiale dello stato civile, un accordo di separazione personale, di divorzio o di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio (art. 12), i quali, ad ogni effetto di legge, “tengono luogo dei provvedimenti giudiziali che definiscono i corrispondenti procedimenti” e nelle disposizioni sul c.d. divorzio breve di cui alla L. 6 maggio 2015, n. 55, che:

– ha (art. 1) drasticamente ridotto il tempo d’ininterrotta separazione consensuale richiesto per poter richiedere il divorzio a dodici mesi dall’udienza di comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale in caso di separazione giudiziale ed in sei mesi in caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale, sia che essa sia avvenuta per mezzo di negoziazione assistita o di accordo di separazione perfezionato avanti al sindaco quale ufficiale dello stato civile;

– previsto (art. 2) lo scioglimento della comunione legale tra i coniugi nel momento in cui il provvedimento presidenziale autorizza i coniugi a vivere separati o alla data di sottoscrizione del processo verbale dell’udienza di comparizione dei coniugi dinanzi al Presidente nel procedimento di separazione consensuale, purché ad esso sia seguito il decreto di omologazione;

– disposto (art. 3) l’immediata applicabilità delle nuove disposizioni ai procedimenti di separazione già pendenti alla data di entrata in vigore della legge citata.

Senza che in questa sede ci si possa soffermare sull’effettiva portata di disposizioni, quali ad esempio il terzo periodo del 3° comma dell’art. 12 del citato D.L. n. 132/2014, quale convertito dalla L. n. 162/2014, secondo il quale l’accordo stipulato dalle parti dinanzi al Sindaco, quale Ufficiale dello stato civile, “non può contenere patti di trasferimento patrimoniale”, è sufficiente osservare come le nuove disposizioni, drasticamente riducendo l’intervento dell’organo giurisdizionale in procedimenti tradizionalmente segnati da vasta area di diritti indisponibili legati allo status coniugale ed alla tutela della prole minore, abbiano, nel quadro d’interventi definiti di “degiurisdizionalizzazione”, di fatto attribuito al consenso tra i coniugi un valore ben più pregnante rispetto a quello che, anche a seguito dell’introduzione del divorzio a domanda congiunta delle parti, aveva pur sempre indotto unanimemente dottrina e giurisprudenza ad escludere che nel nostro ordinamento giuridico potesse avere cittadinanza il c.d. divorzio consensuale.

Quanto sopra, nei limiti propri della suddetta sentenza, induce a ritenere che, nel mutato contesto normativo di riferimento, debba riconoscersi il carattere di negoziazione globale a tutti gli accordi dì separazione che, anche attraverso la previsione di trasferimenti mobiliari o immobiliari, siano volti a definire in modo tendenzialmente stabile la crisi coniugale, destinata a sfociare, di li a breve, nella cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o nello scioglimento del matrimonio civile, cioè in un divorzio non solo prefigurato, ma voluto dalle parti, in presenza delle necessarie condizioni di legge.

In tale contesto non sembra, infatti, potersi più ragionevolmente negare, quale che sia la forma che i negozi concretamente vengano ad assumere, che detti negozi siano da intendersi quali “atti relativi al procedimento di separazione o divorzio”, che, come tali possono usufruire dell’esenzione di cui all’art. 19 della L. n. 74/1987 nel testo conseguente alla pronuncia n. 154/1999 della Corte Costituzionale, salvo che l’Amministrazione contesti e provi, secondo l’onere probatorio cadente a suo carico, la finalità elusiva degli atti medesimi.

Infine, va dato atto che, nel ribadire l’applicabilità dell’esenzione di cui all’art. 19 della L. n. 74/1987, come modificato per effetto delle succitate sentenze della Corte costituzionale, per quanto qui rileva, a “tutti gli atti, documenti e provvedimenti relativi” ai procedimenti di separazione e divorzio, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 10 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, con la circolare n. 2/2014 (pagg. 62-63) la stessa Agenzia delle Entrate, richiamando i precedenti documenti di prassi in materia (circolare e n.27/2012, pag. 10, e circolare n. 18/2013, pagg. 38-41), non opera alcuna distinzione al riguardo tra accordi, comportanti trasferimenti immobiliari, integranti il contenuto essenziale della separazione ed accordi analoghi tra i coniugi stipulati in occasione della separazione.

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