Red in Italy- dove abitiamo definisce chi siamo?

Red in Italy- dove abitiamo definisce chi siamo?

La città italiana permette a tutti d’incontrare tutti mentre fanno ogni tipo d’attività. È la rappresentazione del caos di cui è fatta la vita con il minimo dell’ordine imposto dall’uomo

Il modello abitativo è uno dei temi che prendo in esame nel mio libro perché considero la città italiana uno degli elementi fondanti della nostra cultura.

Gli stranieri in vacanza in Italia che elogiano il nostro modo di relazionarci dovrebbero capire che questa non è una caratteristica del nostro DNA, ma il risultato di un modello di vita diverso dal loro, che però anche qui sta scomparendo. Se dormi in un luogo e ti diverti in un altro e lavori in un altro, tre agglomerati di costruzioni distinti, non so perché ma la tua vita sociale sarà meno feconda.

Non sono arrivata a questa conclusione studiando libri sul tema, ma vivendo e quindi potrei anche commettere qualche errore di valutazione. Sia come sia, ho chiaro cosa mi fa bene e cosa mi fa male.

Stamattina ho avuto una nuova prova a conferma di quanto il modello abitativo contribuisca a formare la nostra cultura e concorra nel farci condurre una vita felice. Ho raggiunto uno dei quartieri periferici di Ancona per andare in un ufficio pubblico. Si tratta di uno di quei classici quartieri progettati da chi cerca d’imparare dagli errori degli anni ’60, ma che non si è spinto oltre l’uso didascalico degli elementi coinvolti.

Le colate di cemento intristiscono l’uomo fino a fargli venire voglia di fare del male a se stesso e agli altri? Bene, allora mettiamo tra le palazzine piante non autoctone che però sono molto graziose, alberi da frutto sugli spartitraffico delle rotonde non perché gli abitanti possano coglierne i frutti ma perché in primavera decorano con i loro fiori, vetrate in abbondanza in tutti gli edifici che ospitano uffici, piazze come simbolo della città rinascimentale che quindi, anche se fatte di cemento e con metà dei negozi chiusi, sono l’innesco della vita sociale, prati disseminati di stradelli e scalette per riprodurre la spontaneità della campagna con tanto di stagno al centro del parchetto, che però è delimitato da staccionate in legno e non può in nessun modo interagire con le persone perché la prima cosa da salvaguardare è la sicurezza della ditta costruttrice, che non deve rischiare che qualche cretino di condomino si affoghi in due metri d’acqua.

Ci provano, forse anche con impegno, ma non ci riescono: quello che ho visto oggi mi ha fatto male, pensando a me che lo vivevo e a chi lo vive ogni giorno, che se torna una sera a casa alticcio rischia di vagare di rientranza in rientranza, di rotonda in rotonda, finendo per perdersi perché i moduli abitativi si ripetono tutti uguali, con variazioni sul tema che riescono solo a confondere.

Tornando sui miei passi verso l’auto, ho capito che vivo fuori dal mondo perché gran parte del mondo è fatta in questo modo. Ho fatto l’errore che mi ero promessa d’evitare: sono finita a vivere tra cose che amo, scordandomi del resto. Ho anche capito quanto il mio punto di vista sia radicato in me. Non posso scendere a compromessi adattandomi a un modello di vita che non ha nulla di bello in sé.

Non parlo così perché vivo in un borgo medievale abbellito nell’Ottocento, tanto comodo quanto antico e per questo ancora più apprezzabile. Sento a istinto che vivere in città o in campagna va bene, vivere nei nuovi modelli abitativi è male.

Ad esempio, prendiamo quando sono venuta giù da voi questo inverno: la strada tra Sava e Manduria mi ha mandato in tilt, le poche energie rimaste dopo il lungo viaggio si sono polverizzate in quel labirinto di strade tutte poste in pianura senza punti di riferimento svettanti, strette e alcune senza illuminazione stradale.

Sono arrivata al buio, ma anche con la luce del sole le difficoltà per orientarmi erano molte, come quelle per trovare parcheggio.

Eppure ho subito capito il nuovo modello di città che avevo di fronte e mi sono adattata a esso. Ho immaginato cosa volesse dire vivere in quelle case basse con l’affaccio sulla stretta strada, che ancora più di un centro storico medievale richiedono accortezza quando ci si affaccia per evitare di essere tirati via dalle auto in transito. Ma era tutto ok, c’era il giusto mescolamento di elementi che permette all’uomo di vivere. Non pensate ora ai problemi specifici della vostra città, parlo del modello abitativo in sé: esso permette a tutti d’incontrare tutti mentre fanno ogni tipo d’attività. È la rappresentazione del caos di cui è fatta la vita con il minimo dell’ordine imposto dall’uomo. Questo è per me la città italiana.

Il cuore anglosassone, o protestante, o chiamate come volete chi per primo ha riempito il suo paese di quartieri divisi per funzione, non ha il senso del limite quando è il momento di semplificare. Oltre un certo punto l’interesse pratico di chi costruisce prende il sopravvento sull’obiettivo finale, che non è vendere tutti i lotti, ma permettere alla gente di vivere la propria vita.

Non credo di sbagliarmi nel valutare così drasticamente un costume assodato nell’edilizia moderna, mi basta pormi questa domanda: perché se una persona cammina in paese sta passeggiando, se la stessa persona la incontriamo lungo le strade di una zona commerciale, industriale o esternamente ai quartieri residenziali ci sembrerà in difficoltà, penseremo che le si è rotta l’auto o non ha abbastanza soldi per averne una, in altre parole la sua condizione ci apparirà meschina?

Perché accade questo, se il modello abitativo non fosse così determinante per le nostre vite e relazioni?

Le nostre città sono senza tempo, i nuovi quartieri hanno un tempo di scadenza brevissimo e passano dal sembrare costruiti in un futuro anteriore immaginato negli anni ’60 all’apparire definitivamente vecchi, da buttare, poco importa se in essi vivono delle persone.

Anche se una cosa è in uso in tanti luoghi e da molto tempo, se non funziona bisogna abbandonarla. E se quello che c’era prima funzionava dobbiamo ripartire da lì, aggiungendo poi le migliorie che ci permetteranno di andare avanti nel nostro progresso, che non è per forza sinonimo di sviluppo, differenza che intellettuali come Pasolini ci hanno già spiegato.

Dafne Perticarini

viv@voce

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