“Da H & M preferiscono l’aborto piuttosto che perdere il posto di lavoro”. Nuovo scandalo si nasconde dietro gli abiti di H&M
Rischio per le operaie cambogiane e indiane di perdere il lavoro in caso di gravidanza
Lo scandalo potrebbe riguardare decine di brand. Ecco come vengono prodotti gli abiti che troviamo nei negozi di tutto il mondo e ai quali ormai siamo affezionati perché sempre alla moda e a un prezzo accessibile.
Un preoccupante studio del salario di Alliance Asia Floor (afwa) pubblicato sul suo sito, sottolinea che è meglio non rimanere incinta per le operaie delle fabbriche di H & M che si trovano in Cambogia e India, due dei paesi dove l’azienda produce la maggior parte dei capi.
Il colosso svedese H & M Hennes & Mauritz AB, comunemente conosciuta come H&M, è inoltre proprietario dei marchi Cheap Monday, COS, Monki, Weekday e & Other Stories. In Cambogia e India oltre che in Bangladesh e Turchia si trovano uno dei principali poli di produzione di articoli di abbigliamento per le grandi catene internazionali, insieme a quelli di Cina.
L’ Asia floor wage alliance, una rete di sindacati e organizzazioni non governative di tutta l’Asia, ha intervistato 251 dipendenti circa le loro condizioni di lavoro svelando situazioni “scioccanti”. Lo scopo è stato quello di dimostrare che dietro agli abiti che indossiamo tutti i giorni c’è tanta gente sfruttata e trattata al limite del rispetto dei diritti umani.
Non è una novità che nei paesi del sud-est asiatico milioni di persone lavorano anche per 16-18 ore al giorno con uno stipendio molto al di sotto di quello che considereremmo “salario minimo”, in condizioni igienico-sanitarie spesso molto precarie e senza tutela alcuna.
E le grandi catene dell’abbigliamento, da Zara a Primark passando per Gap e appunto anche per la stessa Hennes & Mauritz, ne approfittano. In tutti questi paesi i lavoratori dell’abbigliamento sono in gran parte donne: di solito provenienti da zone rurali o comunque dagli strati più vulnerabili della società. Tutte hanno riferito di orari di lavoro massacranti, maltrattamenti e insulti, o di straordinari non contati nella busta paga.
Molestie sessuali, miserie quotidiane, perfino le pause per la toilette negate, anche nei giorni mestruali: impressionante sentire giovani operaie che sfidano pregiudizi e intimidazioni per testimoniare cosa significa consumarsi in fabbrica.
Ma in particolare “Secondo il rapporto, in 11 fabbriche cambogiane su 12, i dipendenti sono stati testimoni di situazioni di interruzione della gravidanza o ne sono state vittime. Tutti i 50 dipendenti delle fabbriche indiane intervistati hanno anche svelato che per le donne era comune essere licenziate durante la gravidanza “.
Inoltre, i contratti interinali di uno a tre mesi prevedono che se qualcuno prende un giorno di assenza per malattia, arriva in ritardo o si rifiuta di lavorare fuori orario, corre il rischio di non vedere rinnovato il contratto “.
Le condizioni di lavoro, spingono molte giovani donne, che rappresentano oltre l’85% del numero dei dipendenti, all’aborto per evitare di perdere il lavoro.
L’industria dell’abbigliamento, evidenzia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è un sistema globale in cui, da un lato, ci sono imprese di paesi industrializzati che vendono abiti e abbigliamento sportivo, di solito con marchi noti; dall’altro, ci sono i produttori di quegli abiti.
Le note marche occidentali in effetti non producono più nulla. Hanno smesso da tempo di avere fabbriche proprie; si limitano a commissionare i loro modelli a fabbricanti sparsi in paesi a basso reddito e basso costo del lavoro, per lo più in Asia: una decina di paesi dell’Asia meridionale e del sudest oggi sforna il 60 per cento dell’abbigliamento mondiale, secondo dati dell’Organizzazione mondiale del commercio.
Questo significa che l’impresa europea o statunitense non ha alcuna responsabilità verso gli operai che cuciono i suoi vestiti: non sono suoi dipendenti. Tra le belle vetrine in Europa e le fabbriche asiatiche dunque c’è una rete complicata. L’impresa occidentale fa la sua ordinazione a un certo numero di imprenditori con cui ha un rapporto diretto; questi producono in proprio, in grandi stabilimenti con migliaia di operai, oppure subappaltano a piccole fabbriche.
Un singolo marchio occidentale dunque può avere centinaia di fornitori. In mezzo ci sono intermediari, la catena si allunga, le connessioni sono opache.
Alla luce di questo studio ci auguriamo che grazie al tam tam del web, la denuncia di Alliance Asia Floor cominci a prendere il largo, diventando virale insieme alla sua iniziativa di boicottare H&M e i suoi abiti, spingendo l’ H&M, a prendere provvedimenti nei confronti dei laboratori tessili a cui commissiona la realizzazione degli abiti.