TARANTO. Legambiente: “No alla ricerca di idrocarburi nel Golfo. Fermiamo l’assalto al nostro mare”
“Trivellare il nostro mare è un affare per i soli petrolieri che grazie a leggi compiacenti vedono ridotto a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio l’ambiente e l’economia costiera”
Legambiente ribadisce il suo NO al progetto presentato dalla “Schlumberger Italiana S.p.A.” e finalizzato alla ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi nel Golfo di Taranto, cui il Ministero dell’Ambiente ha dato via libera concedendo a ottobre dello scorso anno la compatibilità ambientale. Il progetto prevede la realizzazione di indagine geofisica 3D su una superficie di oltre quattromila km² nel mare Ionio, di fronte alle coste di Puglia, Basilicata e Calabria, effettuata con la tecnica della sismica a riflessione 3D e l’utilizzo dell’air-gun.
L’utilizzo dell’air-gun può provocare danni alla fauna marina causando alterazioni comportamentali, talvolta letali, in specie marine assai diverse, in particolare per i cetacei, fino a chilometri di distanza. Si tratta di una tecnica di ricerca di idrocarburi in mare che prevede il rapido rilascio di aria compressa che, producendo una bolla che si propaga nell’acqua, genera onde a bassa frequenza.
Il rumore prodotto da un airgun è pari a 100.000 volte quello di un motore di un jet: ha quindi un grande impatto sulla fauna marina e può portare gravi danni fisici, all’udito e all’orientamento, fino alla morte degli animali marini. Una tecnica criticata non solo dalle associazioni ambientaliste, ma anche dalla comunità scientifica, da molte comunità locali e dai tanti cittadini che che hanno sottoscritto la petizione #StopOilAirgun per chiedere al governo di vietarne l’uso.
L’eventuale successiva attività di estrazione petrolifera off-shore aumenterebbe il rischio di inquinamento del nostro mare, già interessato in passato da episodi di sversamento di idrocarburi provenienti da navi mercantili e militari, già elevato considerata la presenza contemporanea del Pontile petroli dell’Eni, della base navale della Marina Militare e del Porto e destinato a crescere con la eventuale movimentazione del greggio proveniente da Tempa Rossa.
In un sistema chiuso come il nostro un eventuale incidente sarebbe disastroso. Basta ricordare l’incidente avvenuto nel 2010 nel Golfo del Messico alla piattaforma Deepwater Horizon che ha provocato il più grave inquinamento da petrolio mai registrato nelle acque degli Stati Uniti: se un evento simile accadesse nel Golfo di Taranto sarebbe la fine dell’ecosistema marino, della pesca, del turismo per decine di anni, dal momento che le conseguenze non sono solo quelle immaginabili a breve termine, ma sono ancora più nefaste se si pensa ai danni alla flora e fauna nel lungo termine.
L’attività di prospezione e ricerca off–shore degli idrocarburi e, ancor di più, l’eventuale realizzazione di una piattaforma nel Golfo di Taranto rappresenterebbero un ulteriore carico che graverebbe su una città già ad elevato rischio ambientale. Si rischia di arrecare danni al posidonieto dell’isola di San Pietro peraltro inserito tra i siti di interesse comunitario (SIC), ai banchi coralligeni disposti lungo il tratto di litorale tra San Vito e Torre Saturo ed in località Chiatona che rivestono un alto valore naturalistico per la loro elevata biodiversità.
E tutto questo, secondo i dati forniti dal Ministero per lo Sviluppo Economico, a fronte di riserve certe presenti sotto tutto il mare italiano che sarebbero in grado di soddisfare il fabbisogno energetico del nostro Paese solo per 7 settimane per il petrolio e 6 mesi per il gas.
Insomma trivellare il nostro mare è un affare per i soli petrolieri che grazie a leggi compiacenti vedono ridotto a nulla il rischio d’impresa, mettendo però ad alto rischio l’ambiente e l’economia costiera. I canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: dai 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, ai 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione.
Le royalties previste per trivellare in Italia, pari al 10% e al 7% per il petrolio in mare, sono irrisorie; inoltre, sono esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio prodotte annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi standard di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi standard in mare. Sono esentate dal pagamento di qualsiasi aliquota le produzioni in regime di permesso di ricerca.
Alle casse dello Stato italiano vengono versati dalle multinazionali del petrolio circa 350 milioni di euro all’anno: un’inezia.
Un’inezia peraltro quasi compensata dagli elevati sussidi di cui godono le fonti fossili: 246 milioni di euro di aiuti erogati sotto forma di investimenti e finanziamenti da enti pubblici come Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Servizi Assicurativi del Commercio Estero (SACE).
Le fonti fossili sono le principali responsabili dei mutamenti climatici in atto. Da anni chiediamo di abolire i sussidi che le sostengono e di spingere sulla decarbonizzazione per fermare la crescita delle emissioni di gas serra e contenere entro i 2°C l’aumento della temperatura globale. Lo stop ai sussidi alle fonti fossili consentirebbe, da solo, di ridurre le emissioni di CO2 di 750 milioni di tonnellate (cioè del 5,8% al 2020), contribuendo al raggiungimento della metà dell’obiettivo climatico necessario a contenere l’aumento di temperatura globale di almeno 2°C.
Legambiente chiede di fermare l’assalto al nostro mare. Il nostro “petrolio” è ben altro: produzioni alimentari di qualità, pesca, turismo, biodiversità, innovazione industriale ed energia alternativa.