SAVA. Antonio Spada: “Curiosando intorno all’ulivo, al frantoio (trappìtu), all’olio e alla sua destinazione”
Un pò della nostra cultura contadina, i suoi vari passaggi nei decenni
“A uè lì, comu si ccoijunu l’aulì, e si ccoijunu a unu a unu, pi dispiettu allu patrunu”.
Prima dell’uso della scopatrice le olive venivano raccolte ad una ad una e messe in un contenitore chiamato panàru; quando le mani delle raccoglitrici sentivano il freddo pungente si scaldavano stringendo sassi che precedentemente erano stati a contatto col fuoco (cinìsa) in un contenitore chiamato ialètta.
Successivamente, per trasportarle, le olive venivano messe in sacchi che, riempiti, contenevano 2 tùmmini e mezzo. Lu tùmmunu equivaleva a 56 litri, lu minzèttu a 28 litri e lu stumpieddu a 8 litri.
Lo stesso procedimento di misura veniva usato quando le olive si vendevano al frantoiano; la misura più usata era il 20 litri chiamato comunemente lu vinti.
Una volta che le olive giungevano al frantoio (trappìtu), venivano ammassate in un locale chiamato sciàia in attesa di essere lavorate.
L’estrazione dell’olio cominciava col mettere le olive in una vasca rotonda per essere schiacciate dalle pietre tonde chiamate màcini. Anticamente le macine venivano fatte ruotare a mano, in seguito da animali (asini), infine da motori elettrici.
Questa operazione veniva controllata dal capo operaio, detto nachìru, il quale quasi sempre era originario del capo di Lecce.
Appena pronta, la pasta veniva trasportata in un contenitore (banchìna). L’olio che emergeva spontaneamente dalle olive appena frante e prima di essere pressurizzato era detto olio di lacrima e veniva consigliato come integratore per i neonati.
Quindi si riempivano li fìšculi per effettuare la prima spremitura. Durante l’operazione di pressurizzazione la colonna ti li fìšculi tendeva a storcersi e lu nachìru con una leva detta bardasciòla accompagnava la suddetta colonna per far sì che venisse pressurizzata correttamente.
La bassa pressione delle presse, che seguiva la prima pressurizzazione, era compito del vice capo chiamato sottanachìru, mentre la fase di alta pressione era compito del nachìru.
In antichità, la spremitura veniva eseguita da torchi manuali, in seguito, con l’avvento dell’energia elettrica, la pressione la dava una pompa idraulica, che sollevava con un pistone la colonna ti li fìšculi.
Per separare l’olio dall’acqua vegetale (sintìna) in antichità si faceva riposare l’estratto in delle apposite tinelle e l’olio, essendo più leggero, saliva in superficie e con un attrezzo speciale chiamato nappu veniva estratto e depositato in un recipiente chiamato criscitùru, il cui contenuto veniva versato in un contenitore di 20 litri detto sciuànna, dal quale poi si raccoglieva in uno zirru.
Negli ultimi tempi l’uso di una turbina chiamata separatore ha sostituito l’operazione della separazione.
Di solito nel frantoio c’era sempre un ragazzo a disposizione degli operai, chiamato turlìcchiu, che imparava il mestiere, per poi diventare trappitaru.
Le olive della nostra zona quasi tutte erano di 3 o 4 qualità: uialòra (olearola), cilìna (cellina), curatìna (coratina) e per ultima baresàna.
L’olio extravergine era quello di prima spremitura che non superava lo 0,8 di acidità; quello di seconda spremitura veniva chiamato olio vergine.
L’olio che veniva estratto, lavando a temperatura giusta la sanza con la trielina, veniva chiamato olio di sanza.
All’inizio del secolo, l’olio dei frantoi savesi, dopo aver esaurito la necessità dell’uso locale, veniva trasportato con dei traini a Gallipoli, per essere imbarcato per il Nord Europa.
Durante il percorso per arrivare a Gallipoli, c’era il pericolo costante di imbattersi in dei briganti. E proprio per questo c’è un detto che viene usato per chi, durante il percorso della propria vita, ha superato tutti gli ostacoli e si è realizzato, viene additato come “QUDDU E’ PURTATU LU UÈIU A GALLIPOLI”
Antonio Spada