RACCONTI. “Da quannu onn vnut l tarantini, San Giorg nò è chiù ù stess!”

RACCONTI. “Da quannu onn vnut l tarantini, San Giorg nò è chiù ù stess!”

Un curioso incontro in un bar della cittadina jonica, sempre in rigoso dialetto popolano

Oltre un ventennio fa, a rispolverare la memoria, fui attore di questa conversazione. Seguitela. E’ curiosa …

Ad un bancone di un bar mi trovavo assieme ad un amico e San Giorgio era la sosta momentanea giusto il tempo di prendere un caffè e poi ripartire verso Taranto. Il caffè arrivato rapido, il tempo di zuccherarlo e di cominciare a degustarlo. Con l’amico il tema della classica “chiacchiera” era come San Giorgio si era trasformata nell’arco di cinque decenni a questa parte.

La ricordavo piccola, forse sì e no erano 4mila abitanti, e poi vederla trasformata in una vera e propria cittadina era il risultato di molti tarantini che, grazie all’edilizia popolare, avevano abbandonato il capoluogo di provincia e trasferito la propria residenza, oltre che le proprie abitudini, nel piccolo Comune sangiorgiese. Dicevo all’amico di come l’ “invasione” di altri cittadini provenienti dalla città, che genericamente sono più avanti nelle mode rispetto ai piccoli centri della provincia, poteva aver cambiato le abitudini dei residenti storici.

Tutto d’un tratto un sangiorgese dalla nascita, che ascoltava il nostro dialogo, sbotta verso di me: “Ma cè dic?”

Ed io non facevo altro che rimarcare il fatto di un centro agricolo che, diciamo così, nell’arco di pochi anni si sarebbe dovuto misurare con nuovi, diciamo pure così, stili di vita e con diverse migliaia di nuovi residenti che vengono stimati, ai giorni nostri, in circa 17mila.

”Maè. Da quann onn vnut li tarantin San Giorg è cangiat”.

Ed io a questa sua iniziale affermazione cercavo di spiegargli gli svantaggi e vantaggi che potenzialmente possono portare, ad un piccolo centro agricolo dove grosso modo si conoscono tutti, a queste nuovi “arrivi”.

E lui: “Maè. U paes nò nciù ou camuscjimu chiù!”

Ed io di nuovo, magari in forma diversa, cercavo di spiegargli le mie ragioni. E lui incalza di nuovo.

“Maè. A uè cu sap na cos?”

Dimmi.

“L tarantin stù paes lonn rivoltat ti cap sott”.

E cioè?

“Mo tu spiegh”.

Prego.

“D quannu onn vnut l tarantin, prim l mujier nuestr nò ncì fumavn e mò fumn”.

Va bè, ma questo è relativo.

“Aspitt”.

Veloce che dobbiamo andare via.

“Maè. D quannu onn vnut l tarantin, l mujier nuestr fann li zocchl e prima nò nciù facevn”.

Una risata e via verso Taranto.

Giovanni Caforio

viv@voce

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