“COME ABBIAMO RICOSTRUITO LA CHIAZZA CUPERTA”

“COME ABBIAMO RICOSTRUITO LA CHIAZZA CUPERTA”

Dall’architetto Massimiliano Saracino, riceviamo e volentieri pubblichiamo questa importantissima ricostruzione di un pezzo di storia del nostro paese

“È per questo che ho deciso di scrivere questo articolo, per lasciare una traccia di quella storia, perché quel disegno che ha ridato lustro ad una piazza del centro di Sava è scaturito dalla mia matita e dalla sapienza di mestru Peppu Saracino”

Lo sporco e degradato portico di piazza Spagnolo Palma meglio noto come “chiazza cuperta”, già da tanti anni trasformato in parcheggio, verso la fine del 1999 fu oggetto di una proposta di riqualificazione patrocinata dalla giunta del sindaco Aldo Maggi. Il progetto fu affidato all’arch. Roberto Bozza con studio in Lecce. Un intervento importante, di grossa visibilità e di grande significato storico-culturale, sia per la valenza architettonica del manufatto sia per la realtà storica del luogo.

Tra l’amministrazione e il progettista c’era un chiaro ed evidente contrasto nella visione di ciò che andava fatto. L’arch. Bozza progettò la ricostruzione della facciata così come appariva nelle foto d’epoca, con la caratteristica sequenza di archi in conci di tufo a faccia vista ma con le modanature stilizzate (sintetizzate), mentre, per la copertura, propose la realizzare di volte in acciaio e plexiglas. L’amministrazione comunale, invece, con in testa il sindaco, voleva fortemente ri-costruire il porticato con le cosiddette “volte a stella”. Il progettista si convinse a rivedere il progetto e prendere in considerazione l’idea di una ricostruzione, anche se in origine le volte in quel porticato non ci sono mai state. La demolizione della struttura in cemento armato, infatti, scoprì le tracce delle vecchie putrelle metalliche che costituivano il solaio del porticato. Non si trattava quindi di una ri-costruzione fedele di ciò che era andato distrutto (com’era e dov’era come sostennero i veneziani quando decisero di ricostruire il campanile crollato di Piazza San Marco), ma di una costruzione ex-novo con tecniche costruttive del passato, appartenenti alla cultura del luogo e alla sua storia. In maniera del tutto legittima l’arch. Bozza non era intenzionato a realizzare un “falso storico”, per tale motivo si opponeva al progetto di ricostruzione delle volte. L’ing. Aldo Maggi, viceversa, era convinto che l’ipotesi di costruire una copertura con delle volte a crociera fosse la linea di intervento più consona al contesto urbano e storico in cui si stava intervenendo. In questo dibattito fui catapultato, inesperto ma pieno di entusiasmo.

In quell’anno avevo appena finito il servizio militare e l’anno prima avevo conseguito la laurea in architettura con una tesi sulle Volte del Salento di cui il mio caro “mestru Peppu” Saracino e i suoi figli mi avevano insegnato i segreti. Qualche anno primo, grazie al Gruppo Culturale Savese e in particolare al Prof. Mario Annoscia, la mia esperienza di cantiere si era trasformata in una piccola pubblicazione, nella quale descrivevo i procedimenti costruttivi delle volte e le sapienti regole del taglio della pietra. Fu proprio il mio libro a spingere il sindaco a contattarmi per chiedermi un parere sulla ricostruzione del portico. Io ne fui molto lusingato e felice, perché avevo l’occasione di fare qualcosa per il mio paese. Mi misi subito al lavoro con grande smania e passione. In cuor mio sentivo che tutto il lavoro di ricerca che avevo svolto negli anni prendenti potesse avere come epilogo la realizzazione di un’opera importante per Sava. Un luogo ricco di storia e di cultura popolare.

Il sindaco mi chiamò quale tecnico esperto, per via degli studi che avevo condotto in merito, consulente dell’Impresa appaltatrice, per poter dare una valutazione scientifica e fare una verifica sulle reali possibilità di costruire un porticato con le volte in tufo. I termini della consulenza erano prettamente tecnici; si trattava di stabilire la forma delle volte, la dimensione dei pilastri e dimostrare la loro robustezza in termini rigorosi e matematici. Fui definito “verificatore delle strutture”. Ben presto, però, mi resi conto che trattandosi di un manufatto architettonico dove la struttura portante è l’essenza stessa della sua forma, mi ritrovai a progettare il porticato, come non lo era mai stato nella storia. Se ci fossero state già del volte in passato, sarebbe stato facile documentarne l’esistenza e “ricopiarne” la forma. Ma li c’erano delle putrelle metalliche, per cui le volte dovevano essere ideate di sana pianta. Fu abbastanza facile definire l’aspetto frontale della sequenza di archi, riprodotto su foto d’epoca della preziosa collezione dell’amico Roberto Corrado. Così come le semplici modanature, riproducibili dagli originali ancora presenti in un’arcata del prospetto del Palazzo Comunale su via Regina Margherita. Per il disegno delle volte, invece, la difficoltà stava nel far coniugare bene l’arco maggiore, quello trasversale con gli archi più piccoli del prospetto del porticato. La questione non si limitava solo all’aspetto estetico ma anche a quello statico, che tra l’altro era la materia per cui ero stato contattato. Disegnai due possibili ipotesi. Nella prima sviluppavo la curvatura delle crociere partendo dall’arco a tutto sesto delle arcate di facciata. In questo modo l’arco trasversale, dovendosi incrociare con quello già definito degli archi più piccoli, diveniva a sesto ribassato. Tale soluzione generava sui pilastri una grossa spinta, per cui dovevano essere abbastanza robusti. La seconda soluzione, invece prevedeva di realizzare l’arco a tutto sesto, generatore delle curvature, sul lato corto, quello trasversale. L’incrocio lo risolvevo con un arco acuto, staccato da quello di facciata. Ero appena uscito dall’università e sentivo come un macigno sulle spalle l’importanza delle scelte che ero chiamato a compiere, soprattutto in un contesto così difficile, sia per la valenza storica del progetto sia per la responsabilità derivante dalla sicurezza delle strutture. Fu allora che mi rivolsi al mio maestro, il caro mestru Peppu, per avere un consiglio, un confronto. Egli con una frase, che riporto, mi descrisse il progetto. Mi disse:

“All’arcu chiù granni ha dà fari nu puntu reàli, pi l’otri, invece, na scangiàta, che è da essiri staccata ti l’otri punti riali chiù piccinni ti lu prospettu”.                                            

Le indicazioni erano chiare. Descrisse nel suo linguaggio, quello dei mastri muratori, la mia seconda soluzione. La traduzione è sotto i vostri occhi, anche se la realizzazione ha lasciato un po’ a desiderare. Date le esigue risorse finanziare a disposizione dell’Impresa appaltatrice (!), trascurarono la realizzazione, sui conci a vista, della cosiddetta “ubbia”, cioè la curvatura di intradosso che viene fatta ad ogni concio. Per cui le volte ad una vista più attenta si presentano un pò, diciamo così, “spigolose”. Conservo gelosamente il disegno costruttivo di quelle volte, e mi inorgoglisco quando il porticato diviene luogo di mostre e incontri culturali. È diventato, non certo per merito mio, uno spazio all’aperto carico di cultura e apparentemente pieno di storia. Ogni volta che ritorno a Sava vado a fare un giro sotto le “mie volte” per controllare se stanno ancora in piedi (!) e registrare la qualità dell’invecchiamento della pietra che li rende sempre più parte del territorio. Per me non è solo un manufatto architettonico, ma una parte della cultura del popolo che spero io abbia contribuito a conservare e divulgare.

 La fine di questa storia ha però, per me, un risvolto un pò amaro. Ho studiato architettura per passione, non certo per arricchirmi, e continuo a fare questo mestiere per lo stesso motivo.

In questo contesto i riconoscimenti pubblici, come anche quelli privati, valgono più di quelli prettamente economici. Dopo qualche mese dall’inizio dei lavori il mio nome scomparve dal cartello di cantiere.

Così come sparì dall’elenco delle persone che avevano partecipato alla realizzazione del porticato che il sindaco Maggi ringraziò il giorno dell’inaugurazione. Forse non era stato mai scritto. Non essere presente nel territorio comporta anche questi risvolti.

Non ho rancori, ma al momento provai una grande tristezza. L’invito per l’evento lo ricevetti, e con grande trepidazione partii da Roma per assistervi e magari intervenire descrivendo ciò che ho scritto nelle righe di questo articolo. Ma fu una giornata amara: venni completamente ignorato, come anche mestru Peppu.

Certo nessuno poteva sapere che le sue indicazioni avevano dato coraggio e spessore alla mia proposta. È per questo che ho deciso di scrivere questo articolo, per lasciare una traccia di quella storia, perché quel disegno che ha ridato lustro ad una piazza del centro di Sava è scaturito dalla mia matita e dalla sapienza di mestru Peppu Saracino, e da ciò che avevo appreso da lui e dai suoi figli. Il senso estetico, la proporzione, la robustezza, non ultimo la grande passione. Quando si fa uno spettacolo l’intero corpo di ballo ha la sua razione di applausi, finanche i tecnici che stanno dietro le quinte, non solo i primi ballerini.

Massimiliano Saracino

m.saracino@ecosapiens.it

 

viv@voce

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