INCONTRO CON IL DOTT. PAOLO URSOLEO, SAVESE, PRIMARIO OCULISTA DELL’OSPEDALE “FATEBENEFRATELLI” DI BENEVENTO
Volontario dell’ONG AFMAL, in diverse missioni in Africa. Ecco le ragioni della sua esperienza: “La sensazione di appagamento è grande, consapevole di aver fatto qualcosa di buono per tanta gente che comunque non ha chiesto niente, ma con il disagio di chi non ha fatto abbastanza per evitare che una tale situazione si potesse verificare”
Dott. Ursoleo, che effetto le fa tornare a Sava, il suo paese d’origine?
E’ sempre un grande piacere tornare a Sava. Oltre al periodo estivo, in cui mi concedo un soggiorno relativamente più lungo, cerco di venire almeno due volte al mese a trovare gli amici e la mia famiglia (compresa mia madre di 87 anni).
Questa è la parte della sua vita affettiva. Ci parla della sua vita professionale?
La mia vita professionale si svolge prevalentemente a Benevento, dove da 15 anni sono Responsabile dell’Unità Operativa Oculistica dell’Ospedale “Fatebene fratelli”. I primi anni abitavo ancora a Roma per cui mi fermavo a Benevento solo tre giorni a settimana. Poi mi sono trasferito definitivamente sette anni fa e a tutt’oggi non sono affatto pentito di aver fatto questa scelta. Benevento è una bella città dove si vive molto bene.
Dott. Ursoleo, lei è volontario dell’ONG AFMAL. Quali scopi si prefigge questa associazione?
L’ AFMAL è una libera associazione umanitaria senza fini di lucro impegnata nell’ambito dell’emergenza sanitaria e nello sviluppo di iniziative finalizzate alla solidarietà internazionale. Lo scopo che si prefigge e di offrire un aiuto spontaneo e concreto basato sul volontariato a chi si trova in condizioni di bisogno. Opera dal 1979 in tutti i paesi dove c’è richiesta di aiuto sanitario ed è supportata nelle sue attività dall’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli. Mi occupo ovviamente dell’oculistica e negli ultimi anni ho partecipato a sei missioni umanitarie, cinque a Gaò nel Mali, al confine con il Niger la zona sub- Sahariana dell’Algeria, teatro oggi di scontri tra gruppi di rivoltosi Tuareg e le forze governative. L’ultima due anni fa nel nord del Ghana, paese molto bello e decisamente piu’ tranquillo.
Perchè prevalentemente in Africa?
Nella sola area Sub-Sahariana si calcola che la cataratta colpisca circa 2 milioni di persone a causa delle particolari condizioni climatiche, per le patologie da carenza alimentare, l’acqua non potabile e le malattie metaboliche non curate. Alta è anche l’incidenza di bambini con cataratta congenita che se non vengono operati subito il loro destino è quello di essere abbandonati in un istituto per non vedenti. In alcuni Paesi dove vivere in condizioni ottimali è già abbastanza complicato, in condizioni di cecità diventa un dramma non solo per i diretti interessati ma anche per le persone che stanno vicino determinando una serie di effetti a catena: incapacità a sostenere la famiglia talvolta per anni quando l’interessato è in età lavorativa; necessità che i familiari si prendano cura della persona non piu’ autonoma e spesso questo compito è affidato ai giovani che accompagnano il non vedente nello svolgimento delle attività quotidiane; la povertà, la mancanza di sanità pubblica , la distanza talvolta proibitiva alla quale si trovano le poche strutture private può rendere stabile una situazione di questo tipo anche per diversi anni.
E’ uno scenario difficile quello che ci sta descrivendo …
Difficoltà economiche e mancanza di strutture. Persone che possono sostenere una certa spesa e sopportare un disagio simile sono sicuramente molto poche, per tutti gli altri il destino è quello di rimanere ciechi finchè non giunge sul posto una qualche missione umanitaria e con orgoglio vorrei sottolineare che quelle italiane sono le più presenti, meglio organizzate e più efficienti. Ridare la luce a chi l’ha persa per la cataratta con un intervento per noi di routine (un chirurgo esperto coadiuvato da adeguato personale infermieristico riesce ad effettuare dai 15 ai 20 interventi al giorno con la più moderna tcnologia ed uno standard di sicurezza di livello europeo), significa ridare quella autonomia di cui ogni essere umano ha bisogno realizzando il sacrosanto diritto alla salute oltre a liberare l’accompagnatore da questa forma di schiavitù.
Quali sono le difficoltà che si possono incontrare nel voler organizzare una missione umanitaria?
La difficoltà più importante per le organizzazioni che operano nei Paesi in via di sviluppo, oltre al reperimento delle risorse economiche, è quella di potersi recare in piena libertà ed autonomia. Ottenere le autorizzazioni, avere la collaborazione, conoscere i posti e le eventuali strutture che possono fare da supporto ed ospitare l’eventuale missione non è cosa semplice. Ci sono Paesi che per motivi politici o religiosi sono restii ad accettare che operatori sia pure sanitari e con scopi umanitari si rechino sul loro territorio, come pure ci sono Paesi che a causa di conflitti interni o per la presenza di bande senza scrupoli possono mettere a repentaglio l’incolumità dei volontari.
Quindi, i buoni propositi non sono sufficienti?
Evidentemente non abbiamo lo stesso concetto di solidarietà. In questi Paesi la sanità pubblica è inesistente e le poche strutture presenti erogano prestazioni solo a pagamento. Noi siamo disponibili a recarci sul posto portando tutte le attrezzature necessarie ed offrendo la nostra professionalità in maniera del tutto gratuita e per loro è difficile comprendere ed accettare tutto questo.
Cosa si sente di consigliare a chi volesse fare del volontariato in Africa?
A mio parere sperare di potersi recare sul posto per svolgere una qualche attività di volontariato medico-chirurgico è più difficile di quanto si possa credere, specialmente se i contatti sono esclusivamente di tipo governativo. Puo’ essere molto utile prendere contatti con le missioni dei religiosi che sono le uniche piccole realtà organizzate che hanno una distribuzione capillare nei posti piu’ sperduti in quasi tutti i Paesi in via di sviluppo, conoscono il territorio, i reali bisogni delle persone, la maniera più adatta per trattare con le autorità del luogo e sui reali scopi umanitari non c’è da dubitare.
Dott Ursoleo, quali sono le sue sensazioni dopo aver partecipato a sei missioni?
La sensazione di appagamento è grande, consapevoli di aver fatto qualcosa di buono per tanta gente che comunque non ha chiesto niente, ma con il disagio di chi non ha fatto abbastanza per evitare che una tale situazione si potesse verificare. I paesi più industrializzati dovrebbero intervenire di più per aiutare concretamente quella parte dell’Africa che, pur avendo tante potenzialità inespresse, vive al di sotto della soglia della povertà assoluta (reddito pro capite di un dollaro al giorno secondo l’Onu), evitandole il mortale abbraccio con le centrali del terrore che oggi ci impediscono per motivi di sicurezza di poterci recare in tutta tranquillità.
Rita Torchiani