SUGGESTIVO RITRATTO DI UN’ESTATE MANDURIANA DI TANTI ANNI FA
Da Grazia Sammarco, riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nonostante il tempo quest’anno sia un po’ ballerino, l’estate è cominciata già da un po’ e, come da consuetudine, si registra una consistente riduzione della presenza di abitanti a Manduria, per via delle ferie e del conseguente trasferimento di molti in quel di San Pietro in Bevagna, dimora estiva amatissima dai manduriani.
Mare cristallino, spiagge bianche e affollate, gastronomia, un turismo discreto e accessibile ma che si spera possa diventare più competitivo: questa è la situazione estiva attuale del manduriano medio, in un’alternanza tra maltempo e splendide giornate di sole, tra allegria e amarezza per il destino incerto del nostro mare.
Ma come si viveva la bella stagione tanti anni fa? Quali erano le abitudini dei ragazzi manduriani negli anni ’50? Lo scopriamo attraverso un brano scritto dal prof. Pasquale Spina, noto letterato manduriano, cultore di storia patria e autore di svariate commedie in vernacolo.
Questo breve pezzo, fortemente intriso di tradizione popolare, fa emozionare e riflettere perché, nonostante il passare del tempo, nonostante San Pietro non sia più “isolata e desolata, solitaria e silenziosa”, nonostante tante cose siano cambiate, il nostro “mare immenso, spumeggiante e bello”, è un bene immenso che va preservato con tutte le nostre forze, un tesoro preziosissimo che è sempre stato e deve continuare ad essere il fiore all’occhiello del nostro territorio.
Vi lascio alla lettura di questo brano, certa che sarà di Vostro gradimento…
“Vacanze”
(di Pasquale Spina)
C’erano ancora le dune verdeggianti di sciannibuli, vicino al mare, e nel fiume si potevano far mazzi di accetto e sannacciuni o pescare sapide angiulle.
Poche le pagliare, qualche trullo e pochissime case; la macchia, una volta straripante, ridotta dal sudore di chi aveva avuto la voglia di lavorare come una bestia; […] un pozzo di immacolata acqua sorgiva al termine di una lunga e serpeggiante strada di campagna, e poi l’umida e angusta cappellina protetta dal manto tufaceo della bella torre a cappieddu ti preti e il mare… il mare immenso, spumeggiante e bello, dall’acqua salata che bloccava la sete, dalla carezzevole rena che tergeva il sudore.
Questa la San Pietro della mia giovinezza, isolata e desolata, solitaria e silenziosa, irriconoscibile ormai e irrecuperabile ormai alla primiera bellezza ferina. Questa la San Pietro di tanti anni fa e che ben pochi ricordano.
[…] A questa spiaggia si andava con le biciclette, quelle poche che c’erano, in due su per ognuna. Si era in pochi, anche se si era in tutti.
[…] All’una, col sole di luglio, l’incoscienza dei nostri vent’anni ci faceva partire da via per Maruggio, da casa mia, ognuno con la sua frisa e pummitori in una mappina legata al manubrio della “macchina”.
[…] E si andava ansando, faticosamente attenti a non forare e dandosi il cambio quando più le ginocchia non ce la facevano, lungo quella via del mare solitaria e assolata. Si oltrepassava la Campanella, Piacentini, il Casone e si tirava un sospiro al bosco di Cuturi finchè, alla scinnuta, non si vedeva l’innamorante distesa azzurra dell’adusta San Pietro.
Un po’ di brivido alla discesa, ancora qualche pedalata e poi, e poi l’ampia distesa di sabbia, l’immensa distesa di mare entro cui saremmo rimasti a mollo sino al tramonto, dopo aver divorato la frisa ammollata nell’acqua marina e dopo aver rivolto un muto ringraziamento al Santo tignoso.
[…] E si tornava perché s’è sempre ritornati, da quel mare bello e traditore entro cui, un giorno, stavo per rimanerci se la prontezza di un mio amico non mi avesse strappato ad un gorgo lussureggiante di spuma e di conchiglie.
Grazia Sammarco