Andrea Scanzi: “Stefano Cucchi, l’ingiustizia e l’impotenza”

Andrea Scanzi: “Stefano Cucchi, l’ingiustizia e l’impotenza”

“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte/ mi cercarono l’anima a forza di botte”

Ricordo come, anche a scuola, provassi una strana e contraddittoria invidia per i compagni che sapevano farsi scivolare tutto addosso. Anche quando accadeva qualcosa di brutto (agli altri, mica a loro), neanche pochi minuti e la vita ricominciava già.

Come nulla fosse. Mi è tornato alla mente in questi giorni, funestati dalla sentenza che non ha dato giustizia a Stefano Cucchi e dalle dichiarazioni del Sap, lo stesso sindacato che plaudì chi era stato condannato in via definitiva per la morte di un innocente. Vedo gli altri vivere come se nulla fosse accaduto, e penso che a me non riesce. E non mi riesce anzitutto quando ho la sensazione netta dello Stato che si autoassolve dopo aver commesso crimini irricevibili.

E’ una sensazione che in Italia conosciamo bene. E’ la sensazione che avevo ed ho quando penso alla macelleria messicana della Diaz, alla mattanza di Bolzaneto. E’ una sentenza che non è stata placata dalle condanne-bonsai per il martirio di Federico Aldrovandi. E’ una sentenza che certo non se ne va quando penso a Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Riccardo Magherini, Marcello Lonzi, Riccardo Rasman, Aldo Bianzino e troppi altri. Io funziono in maniera diversa e forse sbagliata: io non dimentico, faccio fatica ad adattarmi. Io non mi trincero dietro il politichese del “le sentenze si rispettano” (tu quoque, Di Maio), perché anche quella di Sacco e Vanzetti era una sentenza.

Io, fossi stato il Presidente del Consiglio, qualcosa di chiaro avrei detto e scritto (anche solo un tweet). Io penso allo strazio indicibile delle famiglie di chi è stato ammazzato senza colpe, magari dopo un arresto per una legge incostituzionale come la Fini-Giovanardi (quanto è incurabilmente caricaturale uno Stato che le leggi le lascia scrivere a uno come Giovanardi?).

Io piango e non me ne vergogno. Io spesso non perdono e certo ricordo con rabbia, come mi ha insegnato John Osborne qualche decennio fa.

Oggi come ieri, tra le lacrime e l’impotenza, continuo a provare dolore: resta lì e non se ne va, perché non se ne può né deve andare.

Volevo e voglio giustizia.

Anzitutto per chi è morto come il blasfemo di Fabrizio De André: “Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte/ mi cercarono l’anima a forza di botte”.

FONTE

andreascanzi.it

viv@voce

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