Confagricoltura: dopo i cinghiali, gli attacchi dei lupi. La vita “pericolosa” degli allevatori martinesi
Aumentano segnalazioni e danni ma mancano i risarcimenti della Regione Puglia
Gli ingredienti sono più o meno quelli della fiaba di Charles Perrault. C’è il lupo e ci sono le vittime, gli animali sbranati al posto di cappuccetto rosso e della nonnina, ma manca il cacciatore. E non ci può essere perché i famelici quadrupedi sono nella lista rossa delle specie particolarmente protette: guai a toccarli. Insomma, niente lieto fine. Anzi, per sovramercato al danno si aggiunge la beffa: il “funerale” lo pagano gli allevatori, cui spetta il costo di smaltimento delle carcasse.
Quella degli attacchi dei lupi – e prima ancora delle scorribande dei cinghiali – è una vicenda che da diversi mesi, in particolare tra dicembre e gennaio, sta mettendo a dura prova la vita e le tasche degli allevatori del territorio martinese. Animali sbranati, mandriani che per paura si rifiutano di badare alle greggi, puledri di razza murgese spolpati sino all’osso, vitelli di razza podolica e persino animali adulti ridotti a brandelli nello spazio di una notte.
Una notte buia che è alleata dei lupi e non degli allevatori, costretti spesso a correre in soccorso delle proprie bestie che pascolano nel Bosco delle Pianelle. Persino nelle aziende, nelle masserie recintate, gli animali non stanno al sicuro. Perché i lupi – così raccontano gli allevatori di Martina Franca – cominciano a spingere la loro caccia sino alle zone abitate di un agro vastissimo, ricco di boschi e di anfratti, dove il predatore può avere la meglio su prede indifese.
«Gli attacchi ormai si contano a decine», spiega Giuseppe Tagliente, che a Martina Franca guida la delegazione locale di Confagricoltura e si sta impegnando sul fronte della denuncia. Perché il problema «sino ad ora è stato sottovalutato o comunque non ben compreso nella sua dimensione e per le pesanti conseguenze economiche». «Finchè si trattava di cani randagi, il Comune ha potuto fare la sua parte pagando i risarcimenti – rimarca Tagliente – ma qui parliamo di lupi, che sono animali selvatici, e la competenza passa alla Regione e alla Provincia».
Una sessantina di allevatori presenti al recente incontro col sindaco Franco Ancona, una raccolta di firme e quasi 150 iscritti ad un gruppo Facebook “attenti al lupo”, testimoniano di una partecipazione che la dice lunga sul livello di allarme diffuso in un territorio che va da Martina a Mottola e Crispiano, ma che coinvolge anche Laterza e persino Ginosa e Castellaneta, luoghi dei primi avvistamenti e attacchi di lupi provenienti, molto probabilmente, dall’Appennino lucano o dall’Abruzzo.
Nell’attesa poi che il tavolo tecnico regionale esamini la questione e ne tragga le dovute conseguenze, tocca agli allevatori fronteggiare quella che Tagliente definisce «una vera e propria emergenza». Del resto, sia il Corpo Forestale sia l’Asl sono stati sollecitati ad intervenire, ma i limiti di competenza (le aree protette in un caso, la speciale “qualifica” dei predatori nell’altro) pongono non poche difficoltà ad un serio contrasto al fenomeno.
«Per questo motivo – racconta Tiziana Recchia, allevatrice e associata di Confagricoltura – stiamo facendo una grande opera di sensibilizzazione nei confronti degli stessi allevatori che, sino a poco tempo fa, nemmeno denunciavano le razzie dei lupi, anche perché a differenza dei randagi il risarcimento non è previsto». Per tutelarsi, in pratica, è necessario «denunciare all’Asl che si tratta di attacchi di lupi».
Denunciare e raccogliere prove. Le decine di avvistamenti, infatti, non sono sufficienti a certificare il problema. E non ci sarebbe nemmeno bisogno di fare appello al repertorio “giallo” di Agata Christie, per il quale tre indizi fanno pur sempre una prova, visto che un veterinario dell’Asl – così svela Tiziana Recchia – ha fatto molto di più: «Ha raccolto il dna da un capo di bestiame ammazzato e lo ha spedito ai laboratori di Teramo, ottenendo un risultato che non lascia più dubbi sul colpevole: Canis Lupus».
La soluzione, secondo Tagliente, dovrebbe trovarla la Regione: «Spostare i lupi altrove, perché sono troppi e si stanno riproducendo in modo rapidissimo e stanziare fondi sia per i risarcimenti danni sia per lo smaltimento delle carcasse». Recchia aggiunge qualche particolare significativo: «Nel solo caso dell’azienda di mio padre – dice – a dicembre abbiamo perso tre puledri di razza murgese, ognuno dei quali vale 1500 euro, e a gennaio due vitelli di razza podolica. La situazione è diventata insostenibile, branchi di lupi circolano nell’agro e noi non possiamo far nulla. Peggio: chi volesse farsi giustizia da sé rischia il carcere perché il lupo è una specie super-protetta».
Scoraggiati eppure non disposti a fare la fine dell’agnello: «Ci stiamo organizzando – continua Recchia – per raccogliere e documentare casi, ma anche per filmare gli attacchi dei lupi, una precauzione da aggiungere alle foto-trappole della forestale. Non vogliamo più che i nostri animali muoiano nel silenzio. La nostra, però, non è una battaglia contro i lupi, che sono una ricchezza per l’ecosistema, ma contro l’indifferenza di istituzioni come la Regione, che ci spinge a fare selezione e investimenti in qualità e al tempo stesso tutela soltanto i lupi ma non noi allevatori, il nostro lavoro e la nostra sicurezza».
Già, ma cosa chiedere in concreto? Confagricoltura ha le idee chiare in proposito: «Un provvedimento efficace, rapido e definitivo come fatto in altre regioni italiane e, nel frattempo, la difesa del bestiame e degli allevatori perché i lupi ci stanno distruggendo le aziende e la vita». In realtà ci sarebbe pure una legge regionale, la numero 27 del 13 agosto 1998, che potrebbe tornare utile, visto che all’articolo 55 prevede l’Istituzione del “fondo di tutela della protezione agro-zootecnica” per far fronte ai danni non altrimenti risarcibili causati dagli attacchi della fauna selvatica stanziale e finanziato, guarda caso, con le tasse di concessione pagate dai cacciatori.
Potrebbe essere questa la chiave di volta per gli allevatori, fieri e caparbi come l’asino di Martina Franca e, tuttavia, consci che il lupo sta in cima alla catena alimentare e l’allevatore in fondo alla trafila burocratica.
Confagricoltura – Taranto
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