Red in Italy- cosa vuol dire essere italiano?
Perché non dovremmo combattere per tenere la nostra cultura viva in ogni angolo del mondo? Non trovo una buona ragione per non farlo
Qualche mese fa ho rivisto Fred. Ci eravamo incrociati di persona e via email, ma solo questo inverno ci siamo seduti a un tavolo per fare due chiacchiere sui temi che ci accomunano: la cultura e l’identità italiane.
Lui per me è americano, ma mentre parla capisco che si sente italiano. Più comunemente sarebbe definito italo-americano.
Per rompere il ghiaccio gli ho fatto leggere il capitolo del mio libro dedicato all’identità italiana, dove spiego senza mezzi termini quel disagio che molti italiani vivono di fronte alle contraddizioni degli italo-americani, che dichiarano un grande orgoglio per le loro radici, ma poi finiscono per svenderle riducendole a macchiette.
In quelle pagine parlo del mito dell’italiano tutto mamma, pummarola e mandolino, un’immagine forse mai esistita davvero, che però all’estero conservano di noi grazie soprattutto ai nostri emigrati.
Un modo forte di iniziare una conoscenza, non c’è dubbio, ma Fred è troppo acuto nelle osservazioni che fa, quelle che io ho potuto visionare, e tra menti oneste solo l’onestà può fare da collante.
Invece di mandarmi a quel paese, egli mi esorta a darmi da fare per diffondere il mio libro.
Tornando a quel tavolo dove ci siamo incontrati, egli mi racconta di come la presa di coscienza della sua italianità sia avvenuta attraverso la lingua. Da giovane era convinto di conoscere l’italiano perché capiva perfettamente ciò che dicevano i suoi nonni, poi però venne in Italia e solo nel suo paese di origine, vicino Monopoli, fu compreso (anche le radici pugliesi ci accomunano). I suoi parenti erano divertiti nel sentire un giovane americano usare espressioni dialettali così antiche, come gli anziani seduti nella piazza del paese con cui lui riusciva a conversare. Loro sì che lo capivano, mentre a Venezia era stato costretto a usare l’inglese per poter comunicare.
Allora Fred comprese che conosceva il dialetto, quello dei suoi nonni, non l’italiano. Prese nota di ciò e tornato a New York si mise a studiare la lingua ufficiale.
«Ancora oggi mi riesce più semplice capire il dialetto che l’italiano, perché all’università ho studiato latino e il dialetto è più vicino a questa lingua di quanto non lo sia l’italiano.»
Ha una mente curiosa Fred Gardaphé, non tutti farebbero il suo sforzo per capire le proprie origini, difatti lui è professore, anzi è Distinguished Professor of English and Italian American Studies all’università del Queens e al Calandra Italian American Institute di New York − distinguished professor è una carica data ai professori universitari “per riconoscere i più ampi e notevoli contributi al progresso di un settore di studi” (secondo Wikipedia).
Insomma, lui si è davvero appassionato alla materia, tanto da farne una specializzazione di studio e il tema di molti suoi libri. Non è certo una persona a caso con cui parlare d’identità italiana all’estero e il fatto che lui abbia accolto il mio punto di vista è per me molto importante.
«Vai in Toscana e ti dicono siamo noi i veri italiani. Cose simili ti vengono dette anche al nord, come se oltre una linea immaginaria non si fosse più degni di essere italiani.» mi dice un po’ frustrato per spiegarmi tutte le categorizzazioni inutili che ha incontrato e che escludono questo e quel gruppo dalla possibilità di essere chiamato italiano.
Ascolto e annuisco, ma poi penso che anche io non lo credevo italiano, almeno finché lui non ha dichiarato di esserlo.
Noi italiani in patria non capiamo, peggio: non conosciamo gli sforzi di chi sente di appartenere al nostro popolo e non desidera solo sfoggiare una T-shirt con una chiassosa bandiera tricolore, ma vuole aiutarci a salvaguardare la nostra cultura che proprio perché vista da lontano sembra più meritevole di non scomparire.
Noi ce l’abbiamo tra i piedi tutti i giorni, come un gatto che ti gira tra le caviglie e che difatti ogni tanto prende un pestone, e spesso la diamo per scontata.
Chi è lontano questo errore non lo fa se davvero è interessato a capire.
Come la signora Rosanna Imbriano che ho intervistato per il mio libro, donna risoluta che ha fondato un’associazione per aiutare imprese e privati italiani in America.
Dal libro Red in Italy:
Quando pensi alla cultura italiana, possiamo dire di avere il meglio di quasi tutto: il miglior cibo, il più sano e fresco , la migliore dieta, abbiamo la moda migliore, abbiamo … pensa alla cultura in generale. I valori della famiglia, il modo in cui mangiamo, come socializziamo, la nostra storia, il nostro contributo scientifico … abbiamo una delle migliori culture del mondo.
E se pensi a tutto questo, tutte le componenti sono giuste. Quindi perché non dovremmo combattere per tenere la nostra cultura viva in ogni angolo del mondo?
Presa alla sprovvista, a questa domanda ho saputo rispondere solo con un balbettio imbarazzato, poi ho annuito, gesto che Rosanna non ha potuto cogliere visto che era dall’altra parte dell’Oceano mentre mi parlava.
Allora giro la stessa domanda a voi: perché non dovremmo combattere per tenere la nostra cultura viva in ogni angolo del mondo? Non trovo una buona ragione per non farlo.
Se solo ascoltassimo la voce delle nostre comunità all’estero, se capissimo quanto c’è da perdere a non agire, se fossimo più lucidi, capaci di vedere le cose dal di fuori, sarebbe veramente facile ridare dignità a una grande cultura che non appartiene a una nazione unitaria, ma è il bagaglio di tante piccole nazioni (le regioni italiane) che hanno più legami tra loro che con i popoli esterni. Voi cosa ne pensate?
Io penso che potremo iniziare dalle cose più semplici, come smettere di ripetere frasi quali “Succede solo in Italia” o “Questa è l’Italia”, malocchi che ci gettiamo ai piedi per rafforzare la nostra insicurezza di fronte al mondo.
Dafne Perticarini