SAVA. E’ morto don Antonio Marinotti, il pioniere dell’integrazione savese

SAVA. E’ morto don Antonio Marinotti, il pioniere dell’integrazione savese

Scompare un uomo che, in tempi non sospetti, portò nel nostro paese il primo processo di integrazione

Se oggi dovessimo chiedere a un ragazzo chi era don Antonio Marinotti, sicuramente risponderebbe:“Boh!!!” Noi, alla fine della prima decade dei 50anni, ma anche quelli che oggi arrivano a registrare i 70anni, lo abbiamo conosciuto abbastanza bene.

Lo abbiamo conosciuto come un pioniere che si era avventurato in una striscia di Sava. Abbandonata e degradata, che chi prima di lui aveva desistito nell’opera di ricostruzione etica e sociale. Erano i primissimi anni sessanta, anni difficili, anni di una povertà quasi estrema, un tasso di analfabetismo spaventoso, e già i primi savesi emigravano verso il nord Europa o verso il nord Italia in cerca di un lavoro che li avrebbe portati a farsi la tanto sospirata casa a Sava.

Quando i nostri emigranti tornavano a Sava le loro tasche ospitavano i franchi svizzeri, i marchi tedeschi o le mai viste prima centomila lire e con le belle auto targate Zoffiggen o Torino o Milano. Ma questo giovanotto “franchiddesi”, da non confondere per nulla e neanche minimamente con altri trapiantati nel nostro paese, era di bassa statura e già nel quartiere San Luigi cominciò la sua missione tra mille problemi e drammatiche realtà.

Da premettere che altri “curati” delle anime mandati nel quartiere San Luigi abbandonarono quasi subito dopo aver constatato la difficoltà di “operare”. Don Antonio Marinotti nel quartiere trovò condizioni igieniche disperate, tasso di mortalità elevato, braccianti straziati dal duro lavoro dei campi. E tra l’altro dovette registrare nella zona dimenticata del paese, nominata San Luigi proprio in virtù del nome della chiesa, un insediamento di una nutrita comunità rom.

Prime grossissime difficoltà di integrazione, sottoproletariato sub-urbano su tutto, e questo lasciava presagire che non sarebbe stato facile per nessuno sollevare questa striscia di Sava che, da piccoli, i nostri genitori ci facevano vedere a distanza, con molta riluttanza. San Luigi era un quartiere volutamente dimenticato dai savesi, quasi tutte le famiglie abitavano negli scantinati e con le abbondanti piogge di quei tempi l’allagamento dei medesimi era la norma.

Ma lui si mise sotto e da genuino curato, oltre che delle anime, divenne subito un catalizzatore per tutta questa gente savese aggregata. Oggi è facile per tutti noi parlare di integrazione in quanto la cultura e l’istruzione che abbiamo ricevuto ci permettono di guardare anche alle altre realtà, diverse dalle nostre: ma oltre cinquant’anni fa non era cosi, assolutamente. Nei savesi era ben impresso nella testa che nel quartiere San Luigi c’erano gli zingari e lì non potevamo andare in quanto dovevamo avere paura di queste persone che ci venivano descritte dai nostri genitori come dei ladri, dei malandrini, insomma persone da cui noi dovevamo stare alla larga.

Don Antonio era lì che tesseva la sua tela dell’integrazione e a far capire agli altri savesi che i nuovi residenti avevano solo bisogno di tempo per integrarsi.

C’era bisogno di tempo e il tempo gli ha dato ragione. E qui parliamo dei primissimi anni ’60 e non certamente della seconda decade del terzo millennio. Le diffidenze, e questo si sa, sono sempre pronte a demolire ogni cosa e che i monumenti ci vuole molto tempo ad edificarli ma il giovane curato proveniente da Francavilla Fontana, da autentico bracciante delle anime, si rimboccò le maniche e si sarà, senz’altro detto con molta franchezza: “Antonio? Tocca a te, è questo il compito che il Signore ti ha voluto dare! “

Ha affrontato di petto ogni situazione che si presentava, a volte anche con i “più duri”, ma aveva sempre una risposta e spesso anche la soluzione ai problemi che nell’immediato si presentavano. La Chiesa di San Luigi risultava lontana dal centro del paese, in piena campagna, quasi a voler dire che quella era un’altra Sava ma lui era sempre lì, al fianco della propria gente, di quella gente che si è prodigata fino all’ultimo nell’opera di raccolta dei fondi per edificare la nuova e maestosa Chiesa che oggi il quartiere ha. Ma Don Antonio non era solo questo, questo diciamo che è l’importantissimo ruolo sociale che la sua missione ha avuto.

Don Antonio amava i giovani, amava la sua gente e a differenza di qualche altro curato che in quegli anni gestiva a Sava una Chiesa più grande della sua, il quale anzi chè curare le anime delle fedeli curava i loro corpi. La Chiesa di San Luigi dava tutto lo spazio che aveva, la Casa del Signore, come la chiamava Don Antonio, era per tutti quei ragazzi che non avevano nessun punto di riferimento ricreativo. Don Antonio è stato uno straordinario educatore, capiva che i giovani erano la spina dorsale del futuro e lui, con la sua classica lambretta, risultava il classico prete di frontiera. Quante iniziative che i giovani savesi hanno fatto con lui, quanto spazio libero lasciava ai giovani, quanta disponibilità, davvero immensa.

Ricordo che era la seconda metà degli anni ’60 e noi, troppo piccoli per capire il rock che arrivava da oltre Manica, assistevamo nella sua parrocchia a concerti e festival per tutti i giovani che amavano quel nuovo genere di musica. Erano tanti, davvero tanti. Il rock liberava la mente e anche il corpo, e i giovani dell’epoca cominciavano a capire che il ballo della tarantola non era il pizzico dell’aracnide. Le ragazze savesi cominciavano a mostrare le loro belle gambe con minigonne generosissime.

Si aprivano i primi club, e chi aveva una sorella maggiore doveva vigilare, dietro l’indicazione tassativa dei genitori, a non far si che la stessa “corresse” il rischio di perdere il marchio di beatitudine angelica. Che tempi erano quelli. Le cose cominciavano a cambiare, cambiava anche il quartiere di San Luigi. La striscia savese prendeva man mano un volto decoroso e si mostrava a Sava con estrema dignità. Molte strade cominciavano già ad essere elettrificate e asfaltate.

Quando la tolleranza di qualche amministratore superava il “limite” don Antonio varcava la soglia del Palazzo municipale e si faceva “valere”!!! Se oggi bisogna dare un merito a tutto questo, il merito è tutto suo, di questo curato delle anime, a questo brindisino che ha impiantato in questo nostro paese la fratellanza, l’integrazione su tutto, la dedizione ai giovani e alla loro crescita. Che dire più? Ciao don Antonio.

Chi sa, forse nell’azzurro del cielo non ci sono più i rom che ti aspettano. Ma ci sono le anime di chi ha perso la vita nel mar Mediterraneo cercando un posto migliore. Forse ti racconteranno la loro triste vita e ti diranno dell’aiuto mancato alla loro causa. Alla loro vita. E a dire, caro don Antonio che queste terra era anche loro … come lo era anche tua.

Giovanni Caforio

viv@voce

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