“Riflessioni Puglia, alimentazione regionale umiliata nelle clausole del TTIP”
Nota stampa di Antonio Caso, Federazione dei Verdi – Provincia di Taranto
Le clausole sull’alimentazione spengono ogni speranza a chi, faticosamente, vede nell’alimentazione di qualità un’alternativa alle industrie inquinanti e alla situazione di desertificazione industriale. Sì ad un mercato comune, ma non sia l’Europa a diminuire le proprie tutele.
Uno dei nodi fondamentali dell’accordo transatlantico Ttip tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti è sicuramente quello dei prodotti agroalimentari ed in verità, diversi sono gli indizi che navigano contro la possibilità che l’agricoltura italiana ed europea possa ottenere benefici da questo accordo internazionale. Il rapporto redatto da Friends of the Earth Europe, pubblicato in Italia in collaborazione con l’associazione Fairwatch, parla chiaro: il contributo dell’agricoltura sul Pil europeo calerebbe dello 0,8% con l’ovvia conseguenza della perdita dei posti di lavoro; negli Stati Uniti, invece, questo stesso dato aumenterebbe dell’1,9%.
Uno degli aspetti fondamentali, in particolare per l’Italia, è quello dei prodotti a marchio Dop ed Igp. Innanzitutto, bisogna ricordare che il marchio Dop (Denominazione d’origine protetta) è un marchio di tutela giuridica attribuito dall’Unione Europea ad alimenti le cui caratteristiche qualitative dipendono dall’ambiente in cui sono stati prodotti.
Si tratta di fattori naturali come il clima ed umani come le tecniche di produzione, le tradizioni.
Questa denominazione intende che il prodotto sia inimitabile al di fuori dei territori segnalati e che le fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione debbano necessariamente avvenire all’interno della delimitata area geografica.
Per quanto riguarda l’Igp, invece (Indicazione Geografica Protetta) si tratta del marchio che sempre l’Unione Europea attribuisce a prodotti alimentari dalla qualità legata ad una limitata area geografica. In questo caso, però, almeno una fase del processo deve necessariamente avvenire nella determinata area geografica.
La bresaola della Valtellina, ad esempio, è un prodotto a marchio Igp perché malgrado le carni degli animali possano non essere state allevate in Valtellina, il clima della valle conferisce loro, nel corso della stagionatura, le peculiarità riconosciute all’alimento.
Il numero di prodotti Dop e Doc (Denominazione d’Origine Controllata) europei supera i 1500 marchi di cui quelli tutelati nell’accordo sarebbero circa 200, stante l’attuale bozza del Ttip.
Gli Stati Uniti, peraltro, producono già alimenti simili a quelli tutelati dai marchi europei i quali, con l’approvazione del trattato, potrebbero circolare liberamente e confondersi con quegli alimenti europei che avrebbero perso tale tutela come ha di recente candidamente fatto capire l’ambasciatore Usa presso l’Unione Europea Anthony Gardner.
Secondo un rapporto di Ismea (Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare), l’export Dop e Igp è cresciuto dell’8% nel 2015 e vale circa il 21% delle esportazioni italiane del settore. La produzione italiana ha avuto un fatturato di 13,4 miliardi di euro ed è valsa il 10% sul fatturato dell’industria agroalimentare nazionale. Su 284 prodotti a marchio Dop o Igp, dall’attuale bozza dell’accordo sul Ttip sarebbe stata richiesta una salvaguardia rafforzata per 42.
Gli Stati Uniti, però, non riconoscono i marchi delle eccellenze agroalimentari europee e, peraltro, proprio negli States ha preso ampiamente piede il fenomeno definito “Italian sounding”.
Si tratta di generi che richiamano i prodotti italiani dalle denominazioni molto generiche come, ad esempio, “Asiago”, “Fontina” e che rappresentano un giro d’affari di circa 21 miliardi di dollari l’anno.
Se, dunque, da un lato si aprirebbe un’ulteriore fetta di mercato negli Stati Uniti, dall’altro sul mercato europeo si potrebbero trovare salumi, formaggi o prodotti ortofrutticoli dai nomi simili, ma a minor prezzo e privi di precise denominazioni geografiche che, attualmente, tutelano i prodotti Dop ed Igp dato che queste sono assenti nella legislazione americana.
Si tratta della principale preoccupazione emersa dall’audizione della Conferenza delle Regioni e delle province autonome la cui delegazione era guidata da Simona Caselli, assessore dell’Emilia Romagna presso la commissione Agricoltura di Montecitorio.
Secondo Caselli è necessario che negli Stati Uniti “sia garantita una tutela analoga a quella europea”, mentre, prosegue, attualmente “la tutela nel territorio statunitense è garantita solo attraverso complesse e costose iniziative legali”.
Oltre all’etichettatura, peraltro, anche il meccanismo di risoluzione delle controversie negli Stati Uniti potrebbe dover addirittura costringere singoli o associazioni di cittadini europei ad un arbitrato contro potenti staff legali di multinazionali del cibo.
Quali e quanti sono i prodotto pugliesi che fanno parte della “tutela rafforzata”?
Sono 2 su 18.
Un buon numero per una regione che fa della produzione alimentare di qualità uno dei suoi motori, non c’è che dire.
Uno di questi è l’olio della Terra di Bari prodotto in tre varietà diverse: “Castel del Monte” ottenuta per almeno l’80% dall’oliva Coratina; “Bitonto” ottenuto per almeno l’80% dall’oliva Cima di Bitonto; “Murgia dei trulli” ottenuto per almeno il 50% dall’oliva Cima di Mola. L’altro è la Mozzarella di bufala campana prodotta, però, in Puglia, esclusivamente nei comuni della provincia di Foggia di Apricena, Cagnano, Varano, Cerignola, Manfredonia, Lesina, Lucera e Poggio Imperiale (oltre che parzialmente nel territorio di altri centri della provincia garganica).
Cosa rimane fuori? Diamo un’occhiata.
Innanzitutto gli agrumi del Gargano, presidio Slow Food di cui sia l’arancia del Gargano sia il limone Femminello a marchio IGP. Si tratta degli unici agrumi coltivati lungo il versante italiano di levante e, dopo un periodo di crisi a partire dagli anni 70 stanno vivendo una forte rivalorizzazione.
Prive di ulteriori salvaguardie anche le clementine del Golfo di Taranto, un incrocio tra il mandarino e l’arancia, eccellenza del Made in Italy. Le clementine sono l’agrume più venduto in Italia dopo le arance. Peraltro il comparto della città jonica non vede ulteriormente tutelato neanche il suo olio “Terre Tarentine”, ottenuto dalle varietà di olive “Coratina”, “Ogliarola”, “Leccino” e “Frantoio” da sole o insieme in misura non inferiore all’80% coltivate e trasformate nei comuni occidentali della provincia.
Si tratta di un territorio in grande difficoltà dal punto di visto economico per le vicende legate alla scellerata gestione e alla miopia istituzionale in merito al caso Ilva e che, in questo modo, non può cercare un valido riscatto che porti anche all’export in campo agroalimentare.
Il problema del Ttip, infatti, è soprattutto questo: la lista dei 42 è già malvista dalla controparte statunitense dove tutele simil Dop o Igp non sono proprio previste, dunque, molto probabilmente sarebbe definitiva.
Attualmente l’olio della Terra di Bari è più esportato di quello tarantino, ma questo tappa letteralmente le ali a qualunque realtà del territorio che si voglia “emancipare” anche attraverso l’export alimentare immettendole nello spazio di mercato più grande del mondo sostanzialmente prive di tutele per uno dei due partner di tale spazio.
Un discorso molto simile si può fare per l’olio Collina di Brindisi, un’altra varietà d’olio che non ha ancora il mercato che meriterebbe. Viene ottenuto dalle varietà di oliva Ogliarola (almeno il 70%), presenta un’acidità massima dell’0.80% ed il gusto può accompagnare praticamente qualunque tipo di pietanza.
Nel comparto oli sono esclusi dalle tutele aggiuntive anche l’olio Terra d’Otranto e l’olio Dauno.
Il primo è ottenuto da ulivi coltivati tra la provincia di Lecce e il settore orientale della provincia di Taranto oltre a diversi comuni del brindisino, mentre il secondo viene prodotto in tutti i comuni della Capitanata.
Anche la Bella della Daunia è esclusa da questa lista. Si tratta di un’oliva da mensa ottenuta attraverso la lavorazione in verde o in nero di olive della cultivar Bella di Cerignola.
Il comparto degli ortaggi non è inserito in toto nella lista dei prodotti con una salvaguardia rafforzata. Questo riguarda il carciofo brindisino, la cipolla bianca di Margherita e la patata novella di Galatina.
Il carciofo brindisino è particolarmente pregiato ed è contrassegnato da un sapore particolarmente dolce. La cipolla bianca, invece, è più dolce e pungente della cipolla comune, mentre la patata novella di Galatina ha un tasso più elevato di vitamina C.
La stessa sorte tocca all’intero comparto dei formaggi DOP: il Caciocavallo Silano, il Canestrato Pugliese e la Ricotta di Bufala Campana.
Il primo è prodotto sostanzialmente in tutta la Puglia, dal Gargano all’alto Salento, mentre il secondo è caratteristico dell’area murgiana della provincia di Bari ed è prodotto con latte di pecora di razza gentile di Puglia.
La ricotta di bufala Campana così come la mozzarella, è prodotta sul Gargano, in particolare a Manfredonia, Lesina, Poggio Imperiale.
Anche due eccellenze delle produzioni pugliesi come il Pane di Altamura di grano duro della Murgia e l’Uva di Puglia non sono comprese nella tutela straordinaria.
Le regioni del sud Italia sono quelle più penalizzate con addirittura 5 prodotti dalla Sicilia all’Abruzzo su 42 tutele. È chiaro che si tratta di regioni che fino ad ora non hanno avuto le capacità, ma anche e soprattutto i mezzi per sviluppare un export alimentare di successo e che, in questo modo, potrebbero essere condannate a non farlo mai.
Questo accordo tutela in minor parte le produzioni alimentari già ben avviate e distrugge le speranze di chi, faticosamente, cerca di valorizzarle e piazzarle meglio sul mercato in un periodo in cui l’alimentazione di qualità è tornata prepotentemente ad essere un settore importante.
In un momento in cui il valore della terra e delle produzioni serie e di elevata qualità vengono sempre più valorizzati le clausole del Ttip porrebbero un freno netto a questo percorso. Ecco perché è giusto opporsi con tutte le proprie forze fino a che la controparte nordamericana non abbia applicato gli stessi standard alimentari e dia all’alimentazione di qualità lo stesso valore che dà l’Unione Europea altrimenti si tratta, come già ribadito più volte, di un immenso cavallo di Troia.